Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti è un viaggio nella "fabbrica del mondo" attraverso l’esperienza di chi ha forgiato con il sudore della propria fronte il "miracolo cinese". Un lavoro d’inchiesta a metà tra ricerca scientifica e militanza partecipata. La recensione di China Files. Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti è un’opera che nasce dalla rielaborazione di sette articoli scritti a quattro o sei mani da alcuni sociologi cinesi, e la cui stesura è stata diretta da Pun Ngai, professore associato di scienze sociali presso la Hong Kong University of Science and Technology. Formatasi al Soas alla fine degli anni ’90, Pun Ngai subisce l’influenza del post-modernismo inglese per poi progressivamente distaccarsene; nel 1996 fonda il Chinese Working Women’s Network, una Ong che si batte per assicurare alle lavoratrici migranti cinesi standard di vita migliori.
Anni di interviste e osservazione sul campo con l’occhio attento di chi sa guardare allo sviluppo industriale del Gigante asiatico dal punto di vista operaio. Il background storico: la Terza Rivoluzione Industriale, l’immensa rilocalizzazione del manifatturiero nei Paesi a basso salario. Sullo sfondo: le fabbriche che hanno sostenuto l’iperbolica crescita economica dell’ultimo trentennio cinese, gli stabilimenti della tanto chiacchierata Foxconn, i cantieri edili ai margini dei grandi conglomerati urbani del Sud, i dormitori-prigione in cui viene stipata l’inesauribile (almeno sino ad oggi) manodopera sottopagata.
Protagonisti: i nongmingong, i loro comportamenti soggettivi, le loro aspettative, i loro sogni. 200 milioni di operai contadini che a partire dalla metà degli anni ’90 hanno abbandonato le campagne per trasferirsi nelle città costiere della Cina e sperimentare il lavoro salariato, in un processo di proletarizzazione che l’autrice definisce "incompiuto".
Un sistema di registrazione abitativa retaggio dell’epoca maoista -e in procinto di essere riformato- l’hukou, vincola ogni individuo al luogo di residenza sbarrando, in caso di trasferimento, l’accesso ad una serie di benefit sociali ed economici. Così che un lavoratore migrante viene privato della possibilità di acquisire lo status di lavoratore urbano, con il risultato che per facilitare la mobilità tra i diversi siti produttivi e massimizzare lo sfruttamento della manodopera è stata incentivata la nascita di immensi dormitori in cui la compressione spazio-temporale disintegra la distinzione tra sfera lavorativa e vita privata. In cui le ore di lavoro standard vengono sforate continuamente durante i picchi di produzione. Soltanto nel campus di Longhua, Shenzhen, della Foxconn, si parla di 430mila operai. Per loro "non c’è futuro come lavoratore in città, ma non ha alcun senso tornare al villaggio".
Ad attrarre l’attenzione di Pun Ngai è sopratutto la seconda generazione di "lavoratori mobili", quelli nati dopo il 1992, affascinati dalla fabbrica come trampolino di lancio verso le città, ma meno inclini ad accettare le condizioni di lavoro loro imposte. Più istruiti, critici e desiderosi di lottare per affermare i propri diritti, ma sostanzialmente rubricati come manodopera dequalificati. Per questi, a differenza dei loro predecessori, non ci sarà un ritorno all’ovile. Lo dimostra l’inaspettata affluenza in fabbrica a seguito del Capodanno cinese, festività alla fine della quale generalmente il 20-30% degli operai non si ripresenta sul posto di lavoro, preferendo rincasare.
Nell’ultimo ventennio lo scarso sviluppo delle aree rurali ha ridotto drasticamente la possibilità di una sussistenza basata sulla terra come avvenuto, invece, per i lavoratori migranti della prima generazione. Eppure, il salario che questi giovani operai ricevono "non basta alla riproduzione quotidiana nel luogo in cui lavorano, costringendo, comunque, molti di loro a tornare nei villaggi di campagna dai quali provengono" spiega l’autrice.
Solo pochi giorni fa, l’Ufficio Nazionale di Statistica ha annunciato che nel 2012 il salario medio dei mingong è cresciuto dell’11,8 per cento, quasi la metà rispetto al 21,2 per cento dell’anno precedente. A ciò va ad aggiungersi una minore propensione verso lo spostamento: il 3,6 per cento ha preferito restare nella provincia d’origine, contro il 2,3 per cento che ha scelto mete più distanti.
Un’inversione di tendenza motivata in parte dalla nuova attenzione dimostrata dalle aziende straniere verso le zone dell’entroterra decisamente più "low cost", in parte dalla politica del "Go West" intrapresa da Pechino al fine di rivalutare le regioni arretrate (ma ricche di materie prime) del selvaggio Ovest. E concedere una boccata d’aria al Delta del Fiume delle Perle, la culla del manifatturiero cinese sacrificata sull’altare del "turbocapitalismo".
Per invogliare la migrazione interna verso le zone maggiormente spopolate, all’inizio dell’anno il governo cinese ha provveduto ad innalzare i salari minimi in 23 regioni e diverse aree e città del Paese. Un provvedimento con il quale la leadership spera, tra le altre cose, di accrescere il potere d’acquisto dei cittadini nell’ottica di un paradigma di crescita -in tempi di rallentamento dell’export- sempre più orientato verso i consumi interni.
Risultato: aziende straniere in fuga verso nuove "terre promesse" più economicamente vantaggiose, come Vietnam, Bangladesh e altri paesi del Sud Est Asiatico. Negli ultimi anni, la crescente scarsità di manodopera cinese, di cui è complice la politica del figlio unico, ha indotto le società d’oltreconfine a corrispondere robusti incentivi salariali per trattenere gli operai nelle proprie fabbriche. Così per molti, il "made in China" non è poi più tanto conveniente.
Gli operai-contadini non sono esattamente una novità nella storia cinese. D’altra parte, è a partire dall’apertura ai mercati internazionali con le riforme fine anni Settanta di Deng Xiaoping che assumono un ruolo di primo piano nello sviluppo della Nazione, vedendo contemporaneamente le proprie condizioni di lavoro precipitare in nome di una crescita economica a tappe forzate.
Tanto per avere un’idea: dal 2002 la Cina è il primo produttore mondiale di ottanta prodotti differenti, tra i quali lettori dvd, macchine fotografiche, abiti, frigoriferi, condizionatori e motocicli. Nel 2006 i prodotti tecnologici hanno rappresentato il 56% delle esportazioni complessive, piazzando l’export di tecnologia avanzata cinese al secondo posto dopo quella statunitense, mentre nel 2007 il Dragone ha compiuto il sorpasso sul Giappone divenendo il secondo investitore mondiale in sviluppo e ricerca.
"Questi lavoratori migranti che lasciano gli ormeggi in cerca di lavoro salariale sono sempre più giovani" ha commenta durante la presentazione di Cina, la società armoniosa, tenutasi presso L’Università di Roma "La Sapienza", Devi Sacchetto, ricercatore di Sociologia del lavoro, nonché co-curatore del testo italiano "gli studenti delle scuole professionali tra i quindici e i diciotto anni devono lavorare per un periodo che varia dai sei ai dodici mesi in una fabbrica per il proprio apprendistato. Questo dà l’idea della strada che si sta intraprendendo".
Manodopera più giovane ma meno sottomessa. Lo dimostra la nascita sempre più frequente di gruppi di lavoro, piccoli collettivi che operano per cercare di trovare un linguaggio comune e far valere le proprie istanze, lottando contro i sindacati per gestire la forza lavoro. E talvolta ci riescono, come nel caso dei lavoratori portuali di Hong Kong che dopo quaranta giorni di sciopero hanno ottenuto un aumento dello stipendio del 9,8 per cento. In genere si tratta di fiammate improvvise di rabbia che cominciano con una petizione per poi sfociare in vere e proprie serrate.
"Questi nuclei di dimensione ridotta traggono forza dal fatto che gli elementi appartengono alla stessa area d’origine e parlano la stessa lingua" ha spiegato Sacchetto "fanno uso di una retorica di stampo maoista come contro-retorica per opporsi all’individualismo e al capitalismo, in un contesto sociale in cui il primo verbo che occorre imparare è ‘arricchirsi’. Nella mobilitazione si raggiunge una coesione irraggiungibile durante le convulse attività lavorative. Spesso le lotte coinvolgono unità produttive locali e le cause all’origine delle vertenze sono generalmente orari di lavoro massacranti, salari inadeguati e condizioni di lavoro precarie. Quest’ultimo punto sembra aver acquisito un peso maggiore negli ultimi anni".
"Sulla carta il governo cinese ha spesso adottato politiche a favore del lavoro, come la legge sul contratto e quella sull’arbitrato, molte di queste normative non sono seriamente implementate sul piano locale, dove gli interessi dei governi locali sono strettamente legati a quelli degli investitori privati" ha dichiarato Pun Ngai in un’intervista comparsa alla fine dello scorso anno su Il Manifesto "i sindacati tradizionali, dal canto loro, non funzionano in modo efficace e non sono presenti quando i lavoratori passano all’azione o avrebbero bisogno di un loro sostegno. I sindacati ufficiali sono assolutamente inefficaci, finché i conflitti sul lavoro non diventano problemi di ‘disordine sociale’. In queste situazioni allora il sindacato viene messo sotto pressione per intervenire".
E proprio gli "incidenti di massa" -un eufemismo utilizzato da Pechino per non parlare di "proteste"- sembrano agitare i sonni dei leader cinesi, con le ultime statistiche disponibile che vedono i disordini su territorio nazionale lievitare dai 10mila del 1993 agli 87mila del 2005.
"E’ Piuttosto evidente la tendenza del Partito e delle imprese a ostacolare la nascita di una classe operai consapevole" commenta Sacchetto. Quello stesso ceto operaio che, a partire dal 1949, il Partito comunista cinese promosse, almeno sul piano propagandistico, a classe-guida del Paese, e che fino agli anni Settanta, quando inserito nelle industrie di Stato, poté godere di stipendi persino superiori a quelli dei docenti universitari, con tanto di garanzie accessorie esclusive. Altri tempi e altri Pil.
Verso la metà degli anni Novanta sono cominciate a fiorire le prime organizzazione non governative focalizzate sul lavoro con base prevalentemente a Shenzhen, Canton e Pechino. Tali associazioni, che godono del sostegno dei lavoratori, gestiscono attività culturali, si occupano di strategie organizzative, con particolare attenzione al rispetto dei diritti e della sicurezza dei lavoratori. Il loro ruolo assume un’importanza notevole alla luce di un paradosso giuridico che vede la legislazione cinese non riconoscere, ma neppure negare esplicitamente il diritto allo sciopero, relegandolo sostanzialmente in una zona grigia della giurisprudenza.
Particolarmente eclatante in questo senso lo sciopero indetto nel 2010 dai dipendenti della Honda di Foshan, nella provincia del Guangdong, culminato nel pestaggio tra lavoratori e sindacalisti. In questo caso le proteste rischiarono di estendersi pericolosamente arrivando a minacciare la produzione di fabbriche in località differenti. Cosa che accade di rado in Cina, dove i disordini di questo tipo hanno normalmente un’estensione geografica molto limitata. Le contestazioni, che sono state ampiamente (e stranamente) riportate anche dai media nazionali, rientrarono in seguito all’intervento della Guangdong All-China Federation of Trade Union, ramo locale dell’Acftu, l’unica organizzazione ufficiale di sindacati consentita in Cina, intervenuta per aiutare i lavoratori a indire elezioni e organizzare un sindacato a livello di fabbrica.
"Generalmente si può dire che gli scioperi nelle aziende straniere si arricchiscono di connotati quasi nazionalistici, mentre le autorità sono chiaramente più inclini a lasciar correre" ha spiegato Sacchetto. Quando si parla di Cina, proteste operaie e multinazionali estere il richiamo alla Foxconn è quasi immediato. Appena qualche giorno fa, la "fabbrica dei suicidi", il colosso taiwanese dell’elettronica che assemblea prodotti per Apple, Sony e Nokia è tornato sotto i riflettori dopo che altri tre lavoratori si sono tolti la vita. Tutti e tre impiegati nello stabilimento di Zhengzhou, nello Henan.
"Alcuni ritengono che i recenti suicidi siano da attribuire alla ‘politica del silenzio’, la quale prevede minacce di espulsione per gli operai che parlano durante gli orari di lavoro" ha dichiarato la Ong di New York China Labour Watch, che per prima ha dato la notizia dei decessi. Della Foxconn -costantemente nel mirano della comunità internazionale dall’ondata di suicidi del 2010- Pun Ngai parla ampiamente nel suo libro, scandagliando le ragioni di quel gesto estremo messo in atto dagli operai come forma di resistenza contro una divisione del lavoro rigidissima.
Eppure, non tutti sono così risoluti nel condannare il colosso di Taiwan, che in quanto straniero è facile bersaglio persino delle autorità cinesi, generalmente molto meno occhiute nei confronti delle aziende nazionali. "Ciò che in realtà si dovrebbe chiedere chi osserva i numeri non è perché alla Foxconn ci sono tanti suicidi, ma piuttosto perché ce ne sono così pochi rispetto alla media della Cina e della maggior parte dei paesi occidentali sviluppati" si legge in un articolo comparso poco tempo fa sull‘Economic Observer.
Gli standard di lavoro della Foxconn non sarebbero poi così severi, sopratutto se accostati a quanto accade nel mondo della produzione cinese. Alcuni mesi fa la compagnia stessa aveva cercato di migliorare la propria immagine annunciando in pompa magna imminenti elezioni libere per la costituzione di sindacati interni alle proprie fabbriche. Una promessa, fino ad oggi, rimasta disattesa.
*Alessandra Colarizi- Classe ’84, bazzica l’Estremo Oriente dal 2005, anno in cui decide di chiudere per sempre i tomi di diritto privato e aprire quelli di cinese. Si iscrive alla Facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma La Sapienza e nel 2010 consegue la laurea magistrale. In questi anni coltiva il suo amore per cineserie e simili, alternando lo studio sui libri a frequenti esplorazioni attraverso il continente asiatico. Abbandonata la carriera accademica, approda alla redazione di AgiChina24, dove si diletta con i primi esperimenti giornalistici, passa per lo Studio Legale Chiomenti di Pechino, infine rimpatria. Poco incline alla vita stanziale, si dice che sia già pronta a ripartire.