Singapore depenalizza le relazioni tra persone dello stesso sesso, ma chiude ai matrimoni. Un passo avanti per fare due passi indietro, in una regione dove i diritti per la comunità LGBTQ+ sono a dir poco discontinui e ancora limitati. Articolo pubblicato originariamente su Gariwo.
Se si apre una porta, si chiude un portone. A Singapore sembra essere stato ribaltato il classico detto in riferimento ai diritti della comunità lgbtq+, in uno scenario asiatico dove si iniziano a fare passi avanti dal punto di vista culturale ma con ancora diverse zone d’ombra. Nelle scorse settimane il primo ministro Lee Hsien Loong ha annunciato l’abolizione della storica legge contro l’omosessualità. Si tratta durante l’epoca coloniale della città-stato che fu sotto il controllo dell’impero britannico prima e parte della Federazione della Malesia poi, fino all’indipendenza del 1965. “Il sesso tra uomini consenzienti non dovrebbe essere criminalizzato. Non c’è alcuna giustificazione per perseguire le persone per questo, né per renderlo un crimine”, ha detto Lee nel suo discorso politico annuale, il National Day Rally, trasmesso in diretta televisiva. “Credo che l’abrogazione sia la cosa giusta da fare e che la maggior parte dei singaporiani la accetterà. Questo porterà la legge in linea con gli attuali costumi sociali e, spero, darà un po’ di sollievo ai singaporiani omosessuali”, ha aggiunto.
Finita qui? Purtroppo no, per la comunità lgbtq+, delusa da quanto successo di lì a poco. Subito dopo aver annunciato che le relazioni tra persone dello stesso sesso non saranno più illegali, Lee ha impegnato il suo governo a “sostenere e salvaguardare l’istituzione del matrimonio”, definito dalla Costituzione come un’unione tra uomo e donna. Anzi, pare che il governo renderà di fatto più difficile una futura legalizzazione delle nozze tra persone dello stesso sesso. “Proteggeremo la definizione di matrimonio, contenuta nell’Interpretation Act e nella Carta delle donne, da eventuali contestazioni costituzionali nei tribunali. Dobbiamo emendare la Costituzione per proteggerla, e lo faremo“, ha dichiarato Lee.
Una doppia mossa che sembra un’opera di bilanciamento tra la necessità di passi avanti sul fronte dei diritti civili per una società così avanzata e sempre più internazionale come quella di Singapore, che sta attraendo diversi expat in uscita da Hong Kong e Repubblica Popolare Cinese, con la necessità di tenersi buone le influenti presenze religiose e conservatrici della città-stato. Tra buddhisti, taoisti e cristiani, a Singapore ci sono anche tante chiese evangeliche molto seguite e dichiaratamente anti lgbtq+. “Quello che cerchiamo è un accomodamento politico che bilanci le legittime opinioni e aspirazioni dei singaporiani”, ha ammesso lo stesso Lee.
Ma di fatto, le conseguenze reali della doppia mossa rischiano di essere più negative che positive per la comunità lgbtq+. La sezione 377A del codice penale, quella che dichiarava le relazioni omosessuali fuori legge, è infatti sempre rimasta in vigore ma da tempo non viene applicata. Mentre ora si teme che su spinta dei gruppi religiosi locali, che hanno accolto in larga parte in modo favorevole le decisioni del governo, Singapore blindi costituzionalmente la definizione di matrimonio come unione tra uomo e donna, rendendo molto più complesso un futuro cambiamento sul fronte delle nozze.
Passi avanti sul fronte culturale sono stati mossi in Vietnam, dove il ministero della Salute ha dichiarato che l’omosessualità non sarà più considerata una malattia. Gli operatori sanitari sono ora chiamati a trattare le persone lgbtq+ con rispetto e garantire che non vengano discriminate. Il ministero ha affermato che i medici non devono “interferire né forzare il trattamento” dei pazienti lgbtq+. Se è necessario un supporto, “deve essere sotto forma di assistenza psicologica e deve essere effettuato solo da coloro che sono a conoscenza dell’identità sessuale”, ha dichiarato il ministero. La svolta segue anni di campagne da parte degli attivisti, finalmente accolte da un governo autoritario ma che negli ultimi tempi ha incrementato la sua cooperazione commerciale con l’occidente, diventando peraltro un hub produttivo sempre più fondamentale in tutta la regione per gli effetti collaterali della guerra commerciale Usa-Cina e per la strategia zero Covid di Pechino.
Resta invece ancorata alla tradizione l’Indonesia, dove il massimo organo di studiosi islamici ha esortato il governo a non seguire l’esempio dei paesi limitrofi nel depenalizzare le relazioni tra persone dello stesso sesso, poiché molti nella nazione a maggioranza musulmana più popolosa del mondo continuano a considerare l’omosessualità come deviante. L’omosessualità non è in realtà illegale in Indonesia, tranne che ad Aceh, l’unica provincia che applica la sharia e dove i rapporti tra persone dello stesso sesso sono punibili con un massimo di 100 frustate. Ma negli ultimi anni la discriminazione nei confronti della comunità lgbtq+ è aumentata in tutta l’Indonesia, dove la terapia di conversione rimane una pratica piuttosto comune.
Per restare al Sud-Est asiatico, il Brunei è spesso considerato tra i paesi più pericolosi del mondo per la comunità lgbtq+. I rapporti sessuali tra uomini sono punibili con la morte o la fustigazione, quelli tra donne sono punibili con la fustigazione o la reclusione. Il sultanato ha applicato una moratoria sulla pena di morte nel 2019, ancora in vigore a maggio 2022; la moratoria può essere revocata in qualsiasi momento. All’estremo opposto c’è Taiwan, unico luogo in Asia dove i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono consentiti dopo la legalizzazione del 2019. Eppure, nelle scorse settimane Taipei ha avuto problemi con l’InterPride, organizzazione internazionale che sostiene eventi a favore della comunità lgbtq+ in giro per il mondo.
Kaohsiung, seconda principale città di Taiwan dopo Taipei, avrebbe dovuto ospitare il WorldPride 2025, dopo aver ottenuto il diritto da InterPride. Sarebbe stato il primo a tenersi in Asia orientale. L’anno scorso il gruppo ha eliminato il riferimento all’isola come “regione”, inserito in modo da non smentire le rivendicazioni di Pechino che considera Taiwan parte del suo territorio. Ma gli organizzatori di Kaohsiung hanno detto che l’InterPride ha chiesto loro “improvvisamente” di cambiare il nome dell’evento in “Kaohsiung”, eliminando la parola “Taiwan”. “Dopo un’attenta valutazione, si ritiene che se l’evento dovesse continuare, potrebbe danneggiare gli interessi di Taiwan e della comunità gay taiwanese. Pertanto, si è deciso di interrompere il progetto prima della firma del contratto”, hanno dichiarato gli organizzatori di Kaohsiung. L’InterPride ha dichiarato in un comunicato di essere stato “sorpreso di apprendere” la notizia: “Eravamo fiduciosi che si sarebbe potuto raggiungere un compromesso nel rispetto della lunga tradizione del WorldPride di utilizzare il nome della città ospitante. Avevamo suggerito di utilizzare il nome WorldPride Kaohsiung, Taiwan”, ha aggiunto l’organizzazione.
Versione smentita dagli organizzatori di Kaohsiung, i quali sostengono di non aver avuto possibilità di scelta sul nome dell’evento e suggeriscono che InterPride non abbia voluto rischiare di entrare in rotta di collisione con Pechino, visto che l’organizzazione starebbe centrando l’affiliazione alle Nazioni Unite dove siede appunto la Repubblica Popolare come “unica Cina”.
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.