C’era molta attenzione internazionale sulle terze elezioni presidenziali nella storia delle Maldive, ben più nota come paradisiaca destinazione turistica, che come laboratorio politico asiatico. Dopo anni di burrasche politiche, arresti, processi, denunce per violazione di diritti umani e civili e la proclamazione dello stato d’emergenza, l’Unione Europea, gli Usa e diverse organizzazioni internazionali avevano espresso dubbi sulla regolarità del voto.
Ma la vera contesa delle elezioni non era solo tra i contendenti, il presidente in carica Yameene il candidato delle opposizioni Ibrahim Mohammed Solih; sul voto nelle Maldive si giocava anche la partita tutta geopolitica tra Cina e India, con Pechino che aveva intessuto importanti relazioni con Yameen e Delhi più vicina alle opposizioni.
Alla fine l’ha spuntata proprio quest’ultimo, un candidato che alla vigilia non veniva certo dato come favorito e che aveva più volte denunciato anche le difficoltà riscontrate da una campagna elettorale a senso unico. L’esito del voto però è stato netto: lo stesso ex presidente Yameen ha ammesso la sconfitta alle elezioni presidenziali, vinte dal candidato dell’opposizione Ibrahim Mohamed Solih. «I cittadini delle Maldive – ha detto – si sono espressi e io accetto questo risultato». In un discorso televisivo poco dopo aver incontrato il suo rivale ha poi aggiunto: «Ho servito sinceramente il popolo maldiviano, ma ieri ha preso una decisione sul mio operato, quindi intendo accettare il risultato».
La Commissione elettorale ha dichiarato che Solih ha ottenuto 134.616 voti, pari al 58,3% delle preferenze, contro Yameen, che ha ricevuto 96.132 voti, pari al 41,7.
Si tratta di un esito che apre a diversi scenari. Dal punto di vista interno potrebbe trattarsi di una svolta per quei politici che sono stati perseguitati dall’ex presidente.
Ad esempio Maumoon Abdul Gayoom, fratellastro di Yameen, dopo aver governato il Paese con metodi discutibili, in modo autoritario, lo scorso anno è stato arrestato dopo che Yaneem ha dichiarato lo stato d’emergenza accentrando su di sé ancora più potere.
L’esito del voto – inoltre – potrebbe costituire una svolta anche per il primo presidente democraticamente eletto delle Maldive, Mohamed Nasheed, che è stato costretto all’esilio durante le proteste anti-governative del 2012. Yameen aveva vinto le elezioni dell’anno successivo con un margine risicato di soli appena 6mila voti e solo grazie a un intervento favorevole della Corte Suprema, che aveva annullato il primo turno di voto.
Ma al di là delle ragionevoli critiche nei confronti dei metodi politici di Yameen è stata la sua politica economica ed estera ad aver fatto alzare più di un sopracciglio a Bruxelles, Washington e naturalmente a Delhi.
Yameen aveva infatti lanciato un’agenda di sviluppo economico e infrastrutturale totalmente collegata all’aiuto finanziario della Cina. Ma proprio questa ingombrante presenza di Pechino aveva allarmato e non poco la società e la comunità del business delle Maldive, rafforzando le opposizioni, piuttosto scettiche sul legame cinese anche a causa dell’indebitamento del governo locale con la Cina.
Il simbolo che univa Yameen a Pechino è senza dubbio il “Ponte dell’amicizia Cina-Maldive”, il primo ponte marittimo realizzato nel Paese, finanziato totalmente dalla Cina, ormai completamente impegnata ad allargare in ogni luogo i progetti collegati alla Nuova Via della Seta – compresi quelli finanziari – nonché a “circondare” l’India.
Il ponte è stato inaugurato alla fine di agosto, e collega per due chilometri la capitale delle Maldive, Male, uno dei luoghi con più densità di popolazione al mondo, all’isola di Hulhule, dove sorge il principale aeroporto internazionale del Paese. Grazie alla nuova infrastruttura, Yameen ha potuto rivendicare risultati concreti di fronte ai circa 400mila cittadini maldiviani, per contrastare i messaggi di richiesta di democrazia messi in atto dalle opposizioni.
Nell’ambito dell’espansione cinese – tesa a isolare dalle politiche locali India e Sri Lanka – vanno considerati anche altri due progetti infrastrutturali che insieme al ponte costerebbero alle Maldive 1,5 miliardi di dollari. Un po’ troppo secondo molti osservatori, considerando che il Pil delle Maldive è di appena 3,6 miliardi di dollari. Come per quanto accade in Africa, il rischio, secondo analisti e osservatori è che le Maldive – come diversi altri Paesi della regione – rischino di finire nella “trappola del debito” cinese.
Tutto questo però a Yameen non è bastato. E l’esito elettorale riapre una partita geopolitica che interessa molto anche l’Europa che, come gli Usa, aveva anche minacciato sanzioni contro il governo di Yameen alla luce di evidenti “violazioni di diritti umani e civili nell’arcipelago”.
Dopo la Malesia, un altro tassello della strategia cinese rischia di saltare.
[Pubblicato su Eastwest]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.