Intervista a Liu Han, professore associato di diritto e vicedirettore dell’ Office of Humanities and Social Sciences presso la Tsinghua University di Pechino. Liu ha studiato alla Yale Law School, è esperto di diritto costituzionale comparato.
Sono passati vent’anni da quando il giornalista Joshua Cooper Ramo ha coniato l’espressione «Beijing Consensus». Il significato del termine è ancora oggetto di dibattito. Può definirlo in poche parole?
Penso che il concetto possa essere interpretato sia dal punto di vista sostanziale che procedurale. In primo luogo, ci si può chiedere quali siano gli aspetti che rendono unica l’esperienza che la Cina ha introdotto nel mondo negli ultimi due decenni, insieme alla sua rapida crescita. In questo senso, il dibattito è ancora aperto. Alcune caratteristiche dello sviluppo economico cinese, come la crescita orientata alle esportazioni, non sono senza precedenti. L’organizzazione economica «con caratteristiche cinesi», come l’impresa cittadina fiorita negli anni ’80, non ha mai preso piede a livello nazionale.
Inoltre, la Cina è così grande e diversificata che è difficile generalizzare: al suo interno ci sono vari modelli, come il «South Jiangsu Model» caratterizzato da imprese collettive a livello di township e villaggio e il «Wenzhou Model», basato su aziende familiari. Se invece consideriamo il Beijing Consensus da una prospettiva procedurale, in questo caso la questione è se lo sviluppo economico debba necessariamente prima trovare un modello da seguire. In questa dimensione, il Beijing Consensus non solo sfida il Washington Consensus, ma persino lo trascende, rifiutando l’esistenza di un modello di sviluppo economico universalmente applicabile.
Ogni paese deve formulare politiche e attuarle alla luce delle proprie tradizioni, circostanze e condizioni. A mio avviso, è in quest’ultima accezione che il Beijing Consensus è particolarmente degno di nota. L’esperienza della Cina mostra che il miglior «modello» di sviluppo è proprio non seguire alcun «modello». Allo stesso tempo, le autorità possono prendere in prestito selettivamente esperienze utili da paesi stranieri in modo incrementalista e sperimentalista.
Ritiene che abbia ancora senso parlare di Beijing Consensus? Il suo significato e la sua importanza sono cambiati nel tempo?
Non c’è dubbio che le idee debbano essere contestualizzate. Quando è stato inventato il termine Beijing Consensus, all’inizio del 21° secolo, la crescita economica della Cina cominciava appena ad attirare l’attenzione degli osservatori esterni. C’era ancora un diffuso ottimismo post-guerra fredda sulla diffusione globale del neoliberismo. Dopo la crisi finanziaria del 2008 e l’ascesa di Trump nel 2016, il mondo è cambiato molto. A non essere cambiata invece è l’essenza del Beijing Consensus di Ramo: le circostanze politiche, economiche e culturali della Cina rendono necessario percorrere una propria via di sviluppo. Anche se l’economia cinese ha continuato a crescere da quando è stato lanciato il concetto di Beijing Consensus, il processo di sviluppo è ancora in corso. Sono ravvisabili risultati notevoli (come la riduzione della povertà, il miglioramento dell’istruzione e l’aumento dell’influenza internazionale), ma vanno ancora affrontati problemi, come la protezione ambientale e l’invecchiamento della popolazione. Il dibattito sulla natura dello sviluppo cinese è ancora in corso.
Quali sono i punti di forza e di debolezza del sistema politico ed economico cinese?
Penso che quello che ci dobbiamo chiedere sia: quali sono le caratteristiche principali del sistema politico ed economico cinese? Se prendiamo il sistema costituzionale, non c’è dubbio che siano la centralità del Partito e una leadership centralizzata, oltre alla presenza di leader scelti su base meritocratica. La leadership è in grado di prendere decisioni importanti a lungo termine per lo sviluppo economico e il progresso sociale in modo rapido e deciso. Wuhan è riuscita a costruire un ospedale in dieci giorni durante la pandemia. Il sistema elettorale occidentale talvolta può diventare un ostacolo.
Da un punto di vista sostanziale, invece, la direzione del Partito e le sue decisioni mostrano soprattutto grande resilienza. La leadership agisce sapendo che i decisori politici possono accogliere e incorporare una varietà di politiche adattandole a seconda delle situazioni. Possono combinare il sistema del partito centralizzato con politiche economiche decentralizzate per garantire una stabilità sistemica, promuovendo al contempo l’innovazione delle istituzioni. Ad esempio, la Cina può assorbire alcuni elementi occidentali per una riforma fiscale, ma deve essere cauta in materia di diritti di proprietà e riforma giudiziaria.
Cosa si dice in Cina del «Beijing Consensus»?
Per quanto ne so, c’è stata un’accesa discussione nel mondo accademico e nei forum pubblici sul fatto se il «modello cinese» esista davvero e se il successo economico della Cina derivi dall’apprendimento del neoliberismo. Secondo chi propende per questa teoria, seguire il Washington Consensus, almeno in parte, è fondamentale per un rapido sviluppo del paese. Questa fazione individua una netta frattura tra i 30 anni prima delle riforme e i 40 anni successivi. C’è poi un’altra scuola di pensiero, per la quale il neoliberismo non è sufficiente a spiegare il successo economico cinese, e dà piuttosto enfasi alle basi poste durate l’era protosocialista: la capacità del partito-stato di mobilitare le persone, la struttura industriale, e la diffusione di un’istruzione di base che ha permesso di creare una forza lavoro adeguatamente istruita. Inoltre, il desiderio di autodeterminazione economica può essere fatto risalire alla rivoluzione socialista cinese contro l’imperialismo.
Ma al di là del dibattito sul Beijing Consensus, sorprendente è senza dubbio, negli ultimi anni, la riaffermazione dell’importanza delle antiche tradizioni cinesi, un tempo considerate un ostacolo alla modernizzazione. Negli ultimi 20 anni, si è cominciato a valorizzare la continuità, piuttosto che la rottura, tra la Cina antica e quella moderna.
Negli ultimi vent’anni l’influenza economica della Cina è aumentata, mentre la pandemia ha messo in luce alcune debolezze del sistema occidentale. Cosa potrebbero imparare i paesi occidentali dalla Cina?
Il controllo relativamente rapido ed efficace della Cina sulla pandemia ha mostrato come una leadership forte e centralizzata possa rispondere a gravi crisi.
Alcuni studiosi occidentali iniziano a ripensare alle istituzioni politiche e giuridiche democratiche alla luce della lotta alla crisi. Nel settore legale, per esempio, dopo l’11 settembre si era cominciato a discutere se i governi potessero forzare le procedure democratiche per rispondere alle emergenze. Prima della pandemia, si temeva che le situazioni di crisi potessero facilmente portare a reazioni eccessive da parte dei governi, fino a limitare le libertà civili. Ora, tuttavia, è emerso il problema opposto: secondo recenti studi di diritto costituzionale, la reazione dei governi è stata in larga parte insufficiente.
È ancora troppo presto per dire se e come l’esperienza cinese possa essere trapiantata altrove. Forse l’esperienza cinese può fornire un promemoria: in ogni società moderna a volte è necessaria una forza unificante, almeno in tempi di crisi.
Grazie alla costante crescita economica, il Beijing Consensus ha ottenuto certa popolarità all’estero, specialmente tra i paesi in via di sviluppo. Quali ritiene siano gli aspetti più attraenti?
Penso che l’enfasi posta dalla Cina sulla sovranità nazionale, e il fatto che il governo riesca a mantenere la sovranità nella pratica, sia un elemento di fascino per i paesi in via di sviluppo. Secondo i principi del diritto internazionale, ogni Stato-nazione gode di una «sovranità de jure». Ma mantenere la «sovranità de facto» – soprattutto in senso economico e finanziario – è tutt’altra cosa. In un mondo globalizzato, l’invasione della sovranità nazionale non assume più la forma di un’occupazione territoriale, ma avviene attraverso la penetrazione economica per controllare il destino politico di un paese.
La Cina ha sempre preso molto sul serio la sovranità, soprattutto nel contesto della globalizzazione post- guerra fredda. Ciò rende la Cina più indipendente rispetto ad altre economie non occidentali. Il confronto con gli Usa, la disputa con l’Urss e la riconciliazione con gli Usa sono stati tutti esempi di affermazione di sovranità, indipendenza e autonomia. La Cina, infatti, non ha mai accettato del tutto il Washington Consensus o la sua antitesi; quello che potremmo chiamare il Moscow Consensus. Il successo della riforma economica cinese si basa su un ripensamento del modello sovietico, ma non sul ricorso diretto al modello americano. Anche se si sforza di imparare dall’Occidente in vari settori, la Cina prende in prestito in maniera selettiva.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.