Quando Moon Jae-in e Kim Jong-un si incontreranno a Pyongyang per il loro terzo faccia a faccia il 18 settembre, sull’altra sponda del Pacifico le parole e i gesti dei due leader saranno oggetto di minuziose analisi. A meno di tre mesi dal vertice di Singapore, lo stallo nell’implementazione dei quattro punti contenuti nel Sentosa Agreement rischia di sfaldare nuovamente lo scricchiolante fronte unito messo in piedi da Washington con l’intento primario di spingere la Corea del Nord ad abbandonare l’atomica.
Ancora inebriato dai riflettori, a giugno il presidente americano aveva salutato l’esito del summit come la fine della minaccia nucleare nordcoreana, una posizione mantenuta in barba alle critiche internazionali fino alla fine dello scorso mese, quando – giustificando l’improvvisa cancellazione della quarta visita del segretario di Stato Mike Pompeo a Pyongyang – ha mestamente cinguettato: “sul versante denuclearizzazione non stiamo facendo progressi sufficienti”.
Il brusco ritorno alla realtà segue mesi di dubbi e indiscrezioni sulla tenuta dell’intesa siglata dai due leader. Alcuni giorni fa, in uno dei suoi rapporti più completi sulla questione, l’International Atomic Energy Agency ha ribadito l’esistenza di prove evidenti sulla continuazione dei lavori di ampliamento e arricchimento dell’uranio presso il sito di Yongbyon. Ultima conferma delle attività occulte già messe a nudo da una corposa raccolta di rilevamenti satellitari pubblicati nei mesi trascorsi da autorevoli istituti internazionali di ricerca.
In difesa della “diplomazia paziente” intessuta da Washington, a luglio Pompeo aveva definito le negoziazioni con Pyongyang “produttive” – citando lo smantellamento della stazione missilistica di Sohae – salvo poi ammettere la mancata interruzione della produzione di materiale fissile per la realizzazione di nuovi ordigni. “La diplomazia e l’impegno sono preferibili al conflitto e all’ostilità”, aveva dichiarato il capo della politica estera americana, rispondendo alle critiche di quanti continuano a definire lo storico meeting tra Kim e Trump un inutile “reality TV summit” al servizio della propaganda trumpiana.
Nel tentativo di sbloccare l’impasse, il Dipartimento di Stato americano ha provveduto recentemente a introdurre figure ad hoc, come Stephen Biegun, ex capo degli affari internazionali di Ford, nominato inviato speciale per la Corea del Nord. Una mossa che non è bastata ad azzittire le indiscrezioni sulla sostanziale assenza di un’interpretazione unanime del termine “denuclearizzazione”, che stando a Washington dovrebbe includere la consegna del 60-70% delle testate entro sei sette mesi, oltre a una lista dei siti e delle armi nucleare. La roadmap da seguire sembra costituire un ulteriore elemento di disaccordo tra le due leadership. In particolare è la successione cronologica dei punti 2 (“costruzione di una pace stabile e duratura”) e 3 (“impegno a lavorare per una denuclearizzazione completa”) della dichiarazione congiunta a costituire il vero pomo della discordia.
Secondo un’esclusiva di Vox, in quel di Singapore, lontano dai flash, The Donald avrebbe promesso a Kim l’imminente firma di un accordo di pace. Un documento non vincolante ma con una valenza simbolica fondamentale per il giovane leader, chiamato a giustificare davanti al popolo e all’esercito nordcoreano la rinuncia al prezioso arsenale in cambio di garanzie fumose – solo pochi giorni fa il Pentagono ha ventilato la ripresa delle esercitazioni congiunte con Seul, sospese in dimostrazione di “buona fede” dopo il vertice del 12 giugno. Nonostante la parola data, tuttavia, Washington non ha ammorbidito la propria ostinazione nell’anteporre la denuclearizzazione a qualsiasi concessione, dall’allentamento delle sanzioni a una dichiarazione formale atta a sostituire l’armistizio che nel 1953 ha posto fine agli scontri ma non alla guerra. Un passo che renderebbe superflua la presenza militare statunitense nella penisola.
Secondo la CNN, la decisione di annullare il viaggio di Pompeo al Nord sarebbe stata determinata proprio dalla consegna di una lettera in cui il regime di Pyongyang minacciava nuove provocazioni missilistiche e nucleari nel caso in cui la controparte americana non avesse “soddisfatto le aspettative riguardo alla firma di un trattato di pace”. Insomma, per il Nord, dopo la distruzione del principale sito nucleare, il rilascio dei prigionieri americani e la consegna delle spoglie dei caduti in guerra, Washington si starebbe ostinando a eludere la concessione di “misure corrispondenti”. E a pensarlo non è solo Pyongyang.
L’improduttività dei negoziati sta allontanando nuovamente gli altri interlocutori asiatici – compresi gli alleati storici – mossi da agende politiche ed economiche divergenti. Il 15 agosto, nel Giorno della Liberazione nazionale dal Giappone, il presidente sudcoreano Moon, annunciando il suo terzo meeting con Kim, ha affermato che l’incontro sancirà “un passo audace verso la dichiarazione della fine della guerra di Corea e la firma di un trattato di pace “. Condizione necessaria alla finalizzazione di un piano d’investimenti – già parzialmente bloccato da Washington – che prevede, tra gli altri, la creazione di zone economiche speciali congiunte e ferrovie attraverso il 38esimo parallelo. E se Seul fa il suo gioco Tokyo non è da meno. Di pochi giorni fa la notizia di un incontro segreto a luglio tra l’intelligence giapponese e quella nordcoreana in Vietnam, chiaro segno della scarsa fiducia riposta da Tokyo nella possibilità di ottenere l’aiuto americano a tutela degli interessi nazionali, soprattutto in riferimento all’annosa questione dei cittadini giapponesi rapiti alla fine degli anni ’70.
Difficilmente gli Stati Uniti troveranno una sponda più solida in Pechino, fin dall’inizio fautore di una sospensione delle sanzioni. In tempi recenti Trump ha sparato nuove bordate contro la Cina, accusata di strumentalizzare il suo ascendete economico su Pyongyang in ritorsione alle misure tariffarie adottate nell’ambito della guerra commerciale in corso tra le due sponde del Pacifico. E’ forse per smarcarsi da tali insinuazioni che, smentendo le indiscrezioni della stampa, domenica il presidente Xi Jinping si asterrà dal visitare la Corea del Nord per il 70esimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare democratica, mandando in sua vece il numero tre del Partito, Li Zhanshu, il funzionario cinese di rango più elevato a mettere piede a Nord dal 2012. Segno che, dopo anni di gelo, i rapporti tra i due paesi stanno vivendo un processo di distensione, ma meno rapido di quanto pensi la Casa Bianca.
Ora tutti gli occhi sono puntati sulla parata per il genetliaco del regime nordcoreano. Dopo mesi di escursioni bucoliche e visite in fabbrica, chissà che Kim non decida di tornare ai vecchi e provocatori messaggi subliminali. Come la sfilata di missili balistici intercontinentali in grado di colpire gli Stati Uniti.
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.