La rivoluzione tecnologica intrapresa dalla Cina costerà alla seconda potenza mondiale tra i 40 e i 50 milioni di posti di lavoro a tempo pieno nei prossimi quindici anni. Lo rivela un recente rapporto realizzato congiuntamente dal think tank governativo China Development Research Foundation (CDRF) e Sequoia Capital China sulla base dei dati raccolti dal McKinsey Global Institute. Secondo lo studio, entro il 2030, l’automazione – innescata da un più pervasivo impiego dell’intelligenza artificiale (AI) – sostituirà un quinto delle posizioni nell’industria manifatturiera. Quasi 100 milioni di lavoratori saranno costretti a cambiare professione nel caso in cui il processo di conversione alle macchine dovesse procedere a un passo più sostenuto.
Spinto dagli aumenti salariali e dal rapido invecchiamento della popolazione, quattro anni fa il governo di Pechino ha cominciato a investire massicciamente nella robotica. Tanto che, secondo l’International Federation of Robotics (IFR), dal 2016 l’ex Celeste Impero detiene il primato per numero di robot industriali, sebbene la densità sia al di sotto della media mondiale: 68 unità ogni 10mila lavoratori (dati del 2016). Le cifre macinate dall’AI non sono da meno. Se si danno per buone le statistiche tratte dal “China’s AI Development Report 2018” della Tsinghua University, oltre la Muraglia il settore vale ormai oltre 3,5 miliardi di dollari, contando per più del 15% del totale mondiale, ed è teso a superare i 22 miliardi entro il 2020 grazie a un tasso di crescita annuo del 65%, superiore alla media globale del 60%.
Robotica, automazione e intelligenza artificiale, sono i tre pilastri su cui poggia il controverso progetto “Made in China 2025” mirato a rilanciare l’industria cinese – tradizionalmente low cost – verso i segmenti più alti delle catene di produzione mondiali. Considerato da molti paravento per il saccheggio di tecnologia estera, il piano sembra tuttavia essere all’origine di grattacapi non solo per le relazioni tra Pechino e i competitor occidentali.
Negli ultimi tre anni, l’automazione ha già portato a un taglio della forza lavoro del 30–40% nel Zhejiang, Jiangsu e Guangdong, le province che negli ultimi quarant’anni di riforme economiche hanno trainato la locomotiva cinese. Stando al rapporto della CDRF, nell’ultimo decennio il gigante del beverage Wahaha con base ad Hangzhou ha ridotto tra i 200 e i 300 posti sulla catena di montaggio. Le ultime proiezioni sembrano andare oltre, arrivando a minacciare anche le mansioni ripetitive dei colletti bianchi: entro il 2027, mentre il settore finanziario cinese impiegherà 9,93 milioni di persone, l’automazione porterà una sforbiciata del 22% dei posti di lavoro in banca, del 25% nel mercato assicurativo e del 16% nel mercato dei capitali. Al contempo, le ore di lavoro per il personale fisico subiranno una riduzione del 27%.
Lo sviluppo di nuove tecnologie, unitamente allo sfoltimento della manodopera nei comparti affetti da sovrapproduzione – come acciaio e carbone -, costituisce un mix preoccupante per il ministero delle Risorse umane, che chiarisce: l’aumento della disoccupazione strutturale è il risultato dello squilibrio tra la fornitura di lavoratori poco qualificati e istruiti, e lo spostamento della domanda verso forza lavoro più qualificata.
Nonostante i progressi compiuti negli ultimi trent’anni, il paese presenta ancora una notevole diseguaglianza regionale per quanto concerne il reddito e la qualità dell’istruzione. Secondo l’Accademia delle Scienze sociali, un lavoratore migrante sotto i trent’anni compie un percorso scolastico di appena 9,8 anni, senza finire la scuola superiore. Sottolineando i limiti del sistema, proprio di recente Huang Qifan, vicepresidente del Financial and Economic Affairs Committee, ha sottolineato come la manodopera mobile non abbia accesso ai programmi statali di formazione professionale, di cui godono invece i residenti regolarmente registrati. Investire nel capitale umano è una priorità per creare lavoro nell’era dell’AI, conferma lo studio.
“L’intelligenza artificiale libererà enormemente l’umanità dalle professioni ripetitive e aiuterà a coltivare menti creative”, spiega al China Daily Neil Shen, fondatore e managing partner di Sequoia Capital China. “Questo significa che il lavoro passerà dall’essere incentrato sull’azione all’innovazione: più talenti dedicheranno il loro tempo alla scoperta scientifica e all’innovazione tecnologica, destinando i loro sforzi all’arricchimento del mondo.”
[Pubblicato su il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.