Il 23 Marzo 2021, il Consiglio delle Nazione Unite per i Diritti Umani (UNHRC) ha adottato la risoluzione 46/1, che fa luce sui crimini commessi durante la guerra in Sri Lanka. Una guerra straziante durata 26 anni, in cui gli scontri tra le forze del governo singalese e i ribelli del LTTE, “Tigri per la liberazione della patria tamil”, hanno causato circa 100 mila morti. Le Nazioni Unite stimano che nelle fasi finali dello scontro abbiano perso la vita circa 40 mila persone, soprattutto civili appartenenti alla minoranza etnica e religiosa tamil. La risoluzione, su questo le UN sono chiare, evidenzia come entrambe le fazioni, sia governative che di opposizione, abbiano commessi crimini e atrocità violando i diritti umani dei cittadini dell’isola.
Ad inizio gennaio, Michelle Bachelet, Alto Commissario per le Nazioni Unite per i Diritti Umani, è stata incaricata di raccogliere le prove dei crimini commessi in Sri Lanka dal 1983 al 2009. Il contenuto del report è stato un duro colpo per il governo singalese, poiché viene giudicato responsabile non solo del massacro di migliaia di civili, ma anche delle numerose sparizioni di ribelli tamil che si sono verificate alla fine della guerra e di cui non si ha più avuto notizia. Le famiglie dei desaparecidos sud asiatici sperano di ottenere giustizia da anni e ora sembra che, grazie alla pressione del Regno Unito, si faccia finalmente un po’ di luce sulla faccenda. Il governo dello Sri Lanka, presieduto oggi da Gotadaya Rajapaksha, fratello dell’ex presidente Mahinda Rajapaksha in carica dal 2005 al 2015, si difende dalle pesanti accuse avanzate dall’Onu e ha annunciato pubblicamente di non essere coinvolto nelle sparizioni dei civili. Inoltre, come ha dichiarato il Ministro degli Esteri singalese Dinesh Gunawardena: “La situazione qui in Sri Lanka è totalmente diversa da quella descritta nel report”. Tuttavia, diversi gruppi umanitari singalesi affermano che sotto il governo della famiglia Rajapaksha gli attivisti che esigono delle risposte “scomode” hanno paura, intimiditi dalle forze governative che li tengono d’occhio, spesso con visite “casalinghe” regolari.
La risoluzione, fortemente voluta dal Regno Unito, è stata votata dai 47 paesi dell’UNHRC: 22 a favore, 11 contro e 14 astenuti. A parte l’Inghilterra che ha esercitato molta pressione nel processo di approvazione della risoluzione, i paesi dell’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno votato a favore come ci si aspettava, nonostante i forti interessi commerciali in ballo con lo Sri Lanka. Tra i paesi contrari alla risoluzione troviamo amici di lunga data dell’isola di Ceylon come il Bangladesh, la Cina, il Pakistan, le Filippine e la Russia. Per quanto riguarda il Bangladesh, la recente visita di Gotadaya Rajapaksha alla Prima Ministra Sheikh Hasina il 19 e il 20 Marzo ha sicuramente influito sulla presa di posizione del Bangladesh sulla questione. Lo stesso si può dire del Pakistan che, con il suo voto, ha voluto ringraziare lo Sri Lanka per le ultime gentili concessioni. Recentemente infatti, l’isola di Ceylon ha permesso ai musulmani di seppellire i morti da COVID-19 nel bel mezzo della pandemia. Inoltre, ha deciso di prendersi ancora del tempo per “ulteriori investigazioni” prima di imporre il divieto di indossare il burqa integrale nel paese.
Se fino a qui tutto sembra filare liscio, la sorpresa arriva leggendo la lista dei paesi che si sono astenuti dal voto in cui troviamo l’Indonesia, il Giappone, il Nepal e l’India. Tutti amici storici e vicini dello Sri Lanka, da cui ci si sarebbe aspettati una posizione un po’ più netta. Per questo voto il Primo Ministro Narendra Modi ha ricevuto forti pressioni dalla popolazione indiana tamil, soprattutto dal partito politico al potere in Tamil Nadu, la Federazione Dravidica del Progresso (DMK), capeggiata da M.K. Stalin.
L’astensione di Modi è una decisione ben pensata, che permette all’India di non schierarsi politicamente e di non alimentare le forze antagoniste al governo centrale. L’India ha tentato di spiegare la sua posizione, dichiarando che il voto è il risultato di due considerazioni. Da un lato, la volontà di supportare la popolazione tamil in Sri Lanka che esige e merita giustizia, dall’altro la necessità di mantenere l’unità, la stabilità e l’integrità dell’isola, che soffre già dal 2015 degli effetti di una pesante crisi economica, ulteriormente aggravata dalla recente pandemia. Un voto sinistro su cui lo Sri Lanka non ha fatto grandi commenti, ma che sicuramente non si aspettava.
E’ fondamentale per l’India che l’isola di Ceylon rimanga politicamente stabile e sotto controllo della famiglia Rajapaksha, anche se quest’ultima non rispetta molto i diritti umani dei suoi abitanti. Finché controllata dai fratelli Mahinda e Gotabaya, lo Sri Lanka rimarrà un fedele alleato e un aiuto prezioso per l’India, soprattutto ora che il paese di Modi si sta preparando alla conquista dell’Indo-Pacifico. In realtà l’interesse del subcontinente indiano è condiviso anche da un altro paese presente nella lista degli astenuti, il Giappone. Quest’ultimo ha in progetto di fare grandi cose in Sri Lanka: una brillante cooperazione nell’Indo-Pacifico inaugurata l’anno scorso da un accordo commerciale che prevede la costruzione dell’East Container Terminal nel porto di Colombo.
La risoluzione rilasciata dall’UNHRC è un segnale chiaro non solo per lo Sri Lanka, ma anche per tutti gli altri paesi del Sud-Est asiatico che dovranno evitare di ordinare violente repressioni di civili nel prossimo futuro. Se le Nazioni Unite decideranno di imporre sanzioni al governo singalese al potere durante la guerra civile, l’isola potrebbe non reggere il colpo. La famiglia Rajapaksha risulterebbe indebolita, per non parlare delle ripercussioni sulla situazione economica del paese, che era già alle prese con la recessione dal 2015. Ne conseguirebbe dunque un inasprimento dell’attuale crisi economica, oltre che sociale e politica. I fratelli Rajapaksha, in quel caso, non potranno pensare di risollevarsi senza l’aiuto di altre super potenze come il Giappone e l’India. Anche se è ancora presto per determinare le conseguenze del voto sulle relazioni politiche tra i paesi dell’Asia meridionale, quel che è certo è che se gli stati del Quad (India-Giappone-Australia-USA) e i loro alleati vorranno essere un nemico temibile per la Cina, dovranno poter contare uno sull’altro senza perdere di vista l’obiettivo comune.
Di Maria Casadei*
*Laureata magistrale in Lingue e Culture Orientali con specializzazione in hindi e urdu. Attualmente lavora come Content Manager per Myindia.it (https://myindia.it/), un portale che riporta news e articoli di cultura riguardo il sub-continente indiano. Scrive per il Faro di Roma e VeNews, per il quale si occupa delle recensioni di film indiani in concorso alla Biennale di Venezia.