La riforma dell’Opera di Pechino, premiato in Francia con il prestigioso Prix Décembre, è il racconto-confessione di un intellettuale che ha partecipato attivamente alla Rivoluzione Culturale in Cina e, insieme, una riflessione sul rapporto tra letteratura e potere. In libreria dal 17 aprile, China Files ve ne regala un brano in anteprima (per gentile concessione della casa editrice Nottetempo).
Jiang Qing aveva moltissime ambizioni. La riforma dell’Opera di Pechino era una delle principali. Diceva che le nostre scene rigurgitavano di imperatori, re, generali, ministri, damerini e damigelle – e altri caratteri funesti dell’epoca feudale. Dov’erano gli operai, i contadini e i soldati, che erano i pilastri della nuova società? Erano loro che bisognava servire e istruire; erano la loro vita e la loro immagine che bisognava rappresentare.
Mao insegnava: “Delle due l’una: o si è scrittori, artisti borghesi, e allora non si esalta il proletariato, ma la borghesia; oppure si è scrittori, artisti proletari, e allora si esalta non la borghesia, ma il proletariato e l’intero popolo lavoratore”. Fra i compiti che mi spettarono, c’erano fondamentalmente due progetti da realizzare.
Il primo era comporre nuove opere, opere di Pechino dai temi rivoluzionari contemporanei, senza imperatori e senza damerini, ma con operai, contadini e soldati. La scrittura dei libretti doveva poggiare sul principio della “tripla associazione” dei quadri del Partito, degli artisti professionisti e delle masse popolari.
I drammaturghi erano invitati a istruirsi, nelle campagne, negli eserciti e nelle fabbriche, sui modi di vita che dovevano rappresentare e dei quali ignoravano la realtà. Quando tornavano, gli autori mi facevano vedere i loro abbozzi. Il piú delle volte dovevo correggerli. Erano ancora impregnati delle vecchie tradizioni; come nell’antica Opera di Pechino, i personaggi negativi attiravano troppo l’attenzione, quelli positivi erano totalmente evanescenti.
Dovetti spesso ricordare la dottrina delle “tre messe in risalto”: “Fra tutti i personaggi di un lavoro teatrale, mettere in risalto i personaggi positivi; fra i personaggi positivi, mettere in risalto i personaggi eroici; fra i personaggi eroici, mettere in risalto il personaggio principale”. Correggevo tirate, perfezionavo eroi e sopprimevo malfattori troppo attraenti.
A conti fatti, anche se pochi lo sanno, ho scritto una parte non trascurabile dei libretti di quelle che si sarebbero chiamate le “otto opere modello”, le sole che furono autorizzate a essere messe in scena durante la Rivoluzione Culturale.
[…]Presto o tardi, mi dicevo, ne sarebbero state create di nuove, che avrebbero allargato il cerchio delle otto opere canoniche; e presto o tardi la nozione di autore, sospettata di individualismo borghese, sarebbe stata riabilitata.
Le “opere modello” erano effettivamente lavori collettivi dei quali nessuno poteva rivendicare l’esclusiva paternità; si sarebbe dovuto aspettare che la dottrina della “tripla associazione” si ammorbidisse un po’ per conquistare la celebrità come librettista. Lo speravo.
Nell’attesa, tacevo il mio progetto. Ho lavorato per tre anni su quel testo; l’ho tenuto nascosto giorno per giorno, sapendo che se fosse stato scoperto i miei compagni lo avrebbero guardato con sospetto.
Nel 1976 fu portato via insieme a tutte le mie carte da alcuni poliziotti, che non gli dettero neanche un’occhiata.
*Maël Renouard, 1979, ha insegnato filosofia alla Sorbona e alla Scuola Normale Superiore di Parigi, incarico che ha lasciato nel 2007 per diventare consulente per la comunicazione di Francois Fillon, primo ministro nel governo di Sarkozy. Traduttore di Nietzsche, Joseph Conrad, Schnitzler, ha pubblicato saggi su Yves Bonnefois e Julien Gracq. Con il suo esordio nella narrativa, La riforma dell’Opera di Pechino ha vinto il prestigioso Prix Décembre nel 2013. Nel 2014 il governo francese gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere delle Arti e delle Lettere.