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La “resistenza morbida” di Hong Kong e il caso Agnes Chow

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Citata dalla BBC tra le 100 donne più influenti del 2020, Agnes Chow è stata tra i volti delle proteste pro-democrazia. Pochi giorni fa ha annunciato di aver scelto l’esilio in Canada. “Considerata la situazione politica a Hong Kong e la mia salute personale, mentale, fisica, ho deciso di non tornare indietro”, ha spiegato su Instagram.

“Voglio che il mondo sappia come la polizia di Hong Kong sta abusando del proprio potere”. Il 3 dicembre, Agnes Chow, una tra le attiviste più note di Hong Kongha rotto il silenzio dopo anni intervallati da arresti e periodi di libertà. Lo ha fatto dal Canada, dove si trova per motivi di studio dal settembre scorso. Un esilio auto-imposto quello che la 27enne su Instagram ha raccontato di aver scelto per sfuggire alle pressioni delle autorità: “Hong Kong è un posto pieno di terrore”.

Citata dalla BBC tra le 100 donne più influenti del 2020, Chow è stata tra i volti delle proteste pro-democrazia: in prima linea nel 2012 durante le manifestazioni contro l’istruzione patriottica nelle scuole locali. Poi di nuovo in occasione della rivoluzione degli Ombrelli nel 2014. Due anni più tardi, insieme agli attivisti Nathan Law e Joshua Wong, ha fondato Demosisto, gruppo a favore dell’autodeterminazione di Hong Kong sciolto nell’estate 2020 con l’entrata in vigore della famigerata legge sulla sicurezza nazionale. Già condannata a dieci mesi di carcere per aver preso parte a una manifestazione “illegale” nel 2019, ai sensi della nuova legge la ragazza è stata arrestata di nuovo nell’agosto 2020 con l’accusa di “collusione con forze straniere”. Mai incriminata ufficialmente, nel giugno successivo è tornata in semi-libertà: sotto stretta sorveglianza e senza possibilità di espatrio. Condizioni che è riuscita a negoziare per poter proseguire gli studi a Toronto. Questo mese avrebbe dovuto presentarsi alla polizia, come previsto dai termini della cauzione. Ma “considerata la situazione politica a Hong Kong e la mia salute personale, mentale, fisica, ho deciso di non tornare indietro”, ha spiegato. Aveva già acquistato il volo quando a novembre ha prevalso la paura: “Non volevo rischiare di essere arrestata di nuovo. Non volevo essere mandata di nuovo in Cina“, ha raccontato su Instagram.

Per riottenere il passaporto confiscatole, l’estate scorsa Chow ha infatti dovuto sottostare a due condizioni: innanzitutto le è stato chiesto di scrivere una “lettera di pentimento” sulla sua passata militanza politica. Poi ha dovuto partecipare a un “tour patriottico” nella Cina continentale per ammirare con i propri occhi i successi del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Scortata da cinque funzionari della sicurezza nazionale, la ragazza ha visitato il quartier generale di Tencent, il colosso tecnologico che meglio incarna il progresso della Nuovissima Cina. Se fino a qualche anno fa era Hong Kong il simbolo della modernità cinese, ormai il motore dell’innovazione nazionale si è spostato a Shenzhen, la prima grande città al di là del mare. Spazzata via l’autonomia politica concessa con la formula “un paese, due sistemi”, l’ex colonia britannica oggi fatica a mantenere una sua rilevanza economica.

E adesso cosa farà Chow? Ai media giapponesi ha confessato di valutare l’asilo in Canada. Per la verità, non si sente al sicuro nemmeno lì: anche all’estero, il partito comunista cinese vanta una vasta rete di delatori. A maggio il diplomatico cinese Zhao Wei è stato accusato di intimidazioni contro politici locali ed espulso dal paese. Ma rientrare a Hong Kong sarebbe anche peggio. In un recente comunicato, la polizia della regione amministrativa speciale ha esortato la ragazza a “non scegliere una strada senza ritorno”, che la costringerebbe a “portare lo stigma della fuggitiva per il resto della sua vita”. “Bugiarda” e “ipocrita”, per le autorità, invece lo è già. Il capo dell’esecutivo John Lee ha definito l’attivista in questi termini per aver respinto con un “inganno totale” il “trattamento indulgente” del governo solo per “guadagnare la simpatia” del resto del mondo.

Non è però più solo una questione personale. Il caso di Chow rischia di creare un precedente. A giudicare dalle prime reazioni, ci sono buone probabilità che in futuro il governo si dimostrerà meno “indulgente”. Lo ha lasciato intendere lo stesso Lee, affermando che “la polizia consoliderà l’esperienza e adotterà un’efficace protezione della legge e dell’ordine”, impegnandosi a “combattere qualsiasi collusione con le forze straniere”. Secondo il chief executive, la storia dell’attivista dimostra come i cittadini di Hong Kong sottovalutano ancora il potenziale minaccioso delle ingerenze esterne. Un altro valido motivo – ha spiegato Lee – per introdurre nell’ex colonia britannica nuove disposizioni sulla sicurezza nazionale ai sensi dell’articolo 23 della Basic Law, la mini costituzione locale. Quando l’allora leader Tung Chee Hwa ci provò nel 2003, circa 500mila persone marciarono in protesta. Così non se ne fece niente. Ma ora – che quasi ogni forma di dissidenza è stata repressa – la normativa “deve procedere con tutta la nostra forza”, ha intimato Lee.

Sotto la lente del governo non figurano più – come nel 2014 e 2019 – solo i manifestanti armati di ombrelli, striscioni e maschere antigas. Negli ultimi tempi nel vocabolario dell’establishment è comparsa una nuova parola: “resistenza morbida”, un concetto ancora vago, ma che sembra avere forti connotazioni ideologiche. Vietate le manifestazioni in piazza, adesso il governo ambisce a eliminare le azioni tese a “diffondere disinformazione, creare panico, attaccare maliziosamente il governo della regione amministrativa speciale e le autorità centrali e distorcere la Legge fondamentale”. Stando a Lee, per commettere “resistenza morbida” basta anche solo “affermare deliberatamente” che il governo viene meno ai suoi compiti, “concentrandosi soltanto sulla sicurezza nazionale”.

Il concetto di sicurezza nazionale diventa così ancora più vago ed elastico, allontanando il quadro normativo locale dai principi ereditati dalla “common law” britannica. Piuttosto oggi Hong Kong attinge al cosiddetto “rule by law” della Cina continentale, dove la legge spesso viene utilizzata come strumento per rafforzare gli interessi del governo anziché per proteggere i diritti fondamentali dei cittadini. A questo proposito, come spiega su The Diplomat Eric Lai, ricercatore del Georgetown University Law Center, il caso di Chow presenta diverse criticità, a partire dalla richiesta di sottoscrivere un’autocritica ancora prima di un processo formale.

Un’altra picconata a “un paese, due sistemi” è stata assestata recentemente con l’ordinanza sulle sentenze in materia civile e commerciale. Effettivo dal 29 gennaio del prossimo anno, il provvedimento prevede reciprocità nel riconoscimento e nell’esecuzione delle sentenze civili da parte dei tribunali di Hong Kong e della mainland.

Di Alessandra Colarizi