La Repubblica popolare cinese è diventata il crocevia per il riciclaggio di denaro sporco a livello internazionale. Una lunga inchiesta condotta da Associated Press mette in luce un sistema complesso fatto di transazioni false, export e import gonfiati, «direct foreign investment fasulli», banche illegali e passaggi di denaro contante attraverso il quale, secondo alcune fonti, una serie di organizzazioni criminali sarebbe in grado di riciclare miliardi di dollari sfruttando la reticenza delle autorità cinesi a condividere informazioni e prove con gli inquirenti internazionali. Dai narcos messicani e colombiani ai trafficanti nordafricani, passando per le gang israeliane e spagnole.
Se il problema del riciclaggio di denaro in Cina non è una novità, l’estensione del fenomeno ha ormai portata internazionale. Tanto che, secondo l’organizzazione no-profit Global Financial Integrity, la Repubblica popolare è diventata il primo esportatore al mondo di denaro illecito.
A fare luce sul complesso network è Gilbert Chikli, israelo-francese con un passato nel mondo della recitazione e del real estate, divenuto l’inventore di un ingegnoso quanto semplice piano noto come la «truffa dei CEO», che consiste – attraverso email hackerate e telefonate persuasive – nel fingersi amministratore delegato di un’azienda per indurre gli impiegati a versare cospicue somme sul proprio conto bancario. La scusa è sempre quella della necessità di un pagamento urgente per concludere un accordo o pagare una fornitura.
Ricercato dalle autorità francesi, racconta ad Ap la propria carriera criminale lontano dai riflettori, ad Ashdod, l’isola a sud di Tel Aviv sulla quale si è ritirato lo scorso maggio per sfuggire al mandato di arresto. Un tribunale francese lo ha dichiarato colpevole di frode ai danni, tra gli altri, di La Banque Postale, LCL e HSBC per una cifra pari a 6,1 milioni di euro, e per la tentata estorsione di oltre 70 milioni di euro da parte di altri 33 enti.
Nonostante Chilki si definisca in «pensione», la sua tecnica ha ormai fatto scuola. Stando all’FBI, in circa due anni la «truffa dei CEO» è costata alle aziende in giro per il mondo 1,8 miliardi di dollari; 70 sono i paesi coinvolti con Hong Kong e Cina continentale in testa. Il 90 per cento del bottino ottenuto illegalmente in Europa ha preso il largo verso il Regno di Mezzo. Destinazione: Wenzhou, la capitale del «credito ombra» in cui tutt’oggi la presenza di piccole attività che operano sotto copertura come agenzie di trasferimento di denaro permette di spostare la refurtiva dalla città del Zhejiang in qualsiasi luogo si voglia.
Chikli, che a Parigi ha gestito per diverso tempo un’azienda di abbigliamento nel quartiere multietnico di Sentier, potrebbe essersi avvalso del sistema utilizzato dai gruppi criminali israeliani e nordafricani. Ovvero quello di «pulire» quanto ottenuto con la «truffa dei CEO» grazie ai contatti ottenuti tra la diaspora cinese. Una sorta di versione aggiornata del «fei qian» («flying money»), in cui gli immigrati cinesi sparsi nelle varie capitali europee fanno da intermediari tra i criminali internazionali e i conti bancari in Cina su cui trasferire i soldi «sporchi».
Un altro escamotage consiste nell’utilizzare una parte del denaro ottenuto illegalmente per l’acquisto di merci Made in China (come scarpe, abiti e tessuti) in cambio di ricevute gonfiate in modo da coprire la cifra interessata. Una strategia, questa, che sta riscuotendo grande fortuna tra i narcotrafficanti colombiani e messicani, secondo un rapporto del Dipartimento di Giustizia americano.
A inizio mese Washington ha bacchettato Pechino per la sua reticenza a cooperare nell’ambito di investigazioni finanziarie internazionali. Tuttavia, l’esigenza di far fronte alla massiccia fuoriuscita di capitali sta spingendo le autorità cinesi su toni più concilianti. Secondo stime di Fitch Ratings, nonostante l’inasprimento dei controlli, lo scorso anno 711 miliardi di dollari hanno valicato la Grande Muraglia, molti dei quali illegalmente attraverso una sottostima delle esportazioni combinata ad importazioni gonfiate da parte delle aziende cinesi.
«Se vogliamo ottenere aiuto per riportare indietro i funzionari corrotti e le loro tangenti, dobbiamo a nostra volta fornire assistenza agli altri paesi quando ne hanno bisogno», spiega ad Ap Huang Feng, direttore dell’Institute for International Criminal Law della Beijing Normal University, «il problema non è che le autorità cinese sono poco collaborative. Il problema è che non abbiamo un quadro giuridico adeguato per far fronte alla situazione». Il gigante asiatico non ha accordi né con l’Europol né con l’agenzia che si occupa di far osservare le leggi nei paesi membri dell’Unione Europea.
Durante un briefing con la stampa, il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha dichiarato che «la Cina non è, non è mai stata e non sarà mai in futuro un centro per il riciclaggio di denaro». I buoni propositi ci sono, ora servono i fatti.
[Scritto per il Fatto quotidiano online]