In vista del XX Congresso del Partito comunista, che si apre domenica, Pechino pronta a rallentare la crescita economica per la lotta al Covid e agli ostacoli Usa sull’autosufficienza tech. Nella capitale rara protesta contro il leader con due striscioni di accuse su un ponte
Sicurezza. Quella di Xi Jinping di restare il «nucleo» del Partito comunista cinese, come recita il comunicato finale del VII Plenum. O quella che nella Cina di Xi viene prima di tutto, persino dello sviluppo economico. Ma anche quella elevata al massimo a Pechino alla vigilia del XX Congresso.
In pochi si aspettavano di veder comparire due striscioni di protesta su un ponte del distretto di Haidian, a Pechino. «No al test Covid, sì al cibo. No all’isolamento, sì alla libertà. No alle bugie, sì alla dignità. No alla rivoluzione culturale, sì alla riforma. No al grande leader, sì al voto. Non essere schiavo, sii cittadino», recitava il primo.
NEL SECONDO si invitava allo sciopero per «rimuovere il dittatore e traditore Xi Jinping», secondo le immagini circolate online. Un caso circoscritto e frutto dell’azione di un singolo, ma è molto raro vedere proteste dirette contro il leader. Sui social cinesi post e commenti sull’episodio sono stati bloccati. Così come tutte le parole chiave collegate.
A 12 chilometri di distanza da quel cavalcavia, nella Grande sala del popolo di piazza Tiananmen, domenica mattina Xi aprirà l’evento chiamato a conferirgli uno storico terzo mandato da segretario generale. Il Congresso voterà anche emendamenti allo statuto del Partito, che con ogni probabilità eleveranno lo status del pensiero di Xi e forse del suo stesso ruolo.
Il Comitato centrale ha elogiato i risultati «straordinari» raggiunti da Xi negli ultimi cinque anni. Tra le battaglie vinte ce n’è una che forse diversi cinesi non vorrebbero più combattere: quella contro il «demone» del Covid, com’era stato definito nel marzo 2020. Al Congresso Xi potrà appuntarsi una medaglia di “guerra”.
La strategia zero Covid ha consentito di avere vittime e contagi infinitamente più bassi rispetto ai paesi occidentali: nella prospettiva del Partito non è solo un segnale di superiorità del suo modello di governo ma anche il simbolo della concezione della tutela «dei diritti umani con caratteristiche cinesi».
IN MOLTI si aspettavano che l’approccio restrittivo potesse essere rilassato subito dopo il Congresso, ma in realtà la retorica politica e dei media sembra dire il contrario. Negli ultimi giorni, il Quotidiano del Popolo ha elogiato a più riprese la strategia zero Covid: «Combattere l’epidemia è una prova di spirito», si legge in un articolo, mentre in un altro si condanna «la stanchezza per la guerra e il pensiero velleitario».
Il Partito sembra pronto a proseguire questa guerra anche a costo di un rallentamento dell’economia che è già nei fatti. Il Fondo monetario internazionale prevede che il pil cinese crescerà solo del 3,2% quest’anno, più lentamente del 5,5% inizialmente indicato dal governo. La disoccupazione giovanile sfiora il 20% e il resto dell’Asia per la prima volta dopo 30 anni cresce di più senza la Cina.
D’altronde, Xi ha già reso chiaro da tempo che la sicurezza nazionale viene prima di tutto. Dal 2002 i leader cinesi sono soliti indicare nello sviluppo economico la «priorità assoluta» durante il Congresso. Secondo diversi analisti, Xi potrebbe abbandonare questa frase a favore di uno slogan che invita a «bilanciare sviluppo e sicurezza».
XI HA INIZIATO a usare questo slogan nel 2020 per porre maggiore enfasi sulla lotta ai rischi. Sempre in quel 2002, Jiang Zemin parlò di «ventennio di opportunità strategiche» di fronte alla Cina. Un ventennio che secondo Xi potrebbe essersi ora esaurito per lasciare posto ad acque ben più tempestose.
Ecco allora i richiami alla navigazione, tanto che per il leader potrebbe essere rispolverato il titolo di «timoniere». Ed ecco la prevedibile insistenza sull’autosufficienza, soprattutto tecnologica. Le ultime restrizioni di Joe Biden su semiconduttori e intelligenza artificiale hanno chiarito definitivamente che gli Usa non vogliono solo stoppare l’ascesa tech cinese, ma provare a farla regredire.
Una prima risposta è arrivata con il via libera al primo fondo comune di investimento che si rivolge ai produttori di chip cinesi e sudcoreani. L’obiettivo è di legare a sé i colossi del settore di Seul, da Samsung a SK Hynix, che non vedono di buon occhio i tentativi di decoupling made in Usa.
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.