La primavera mancata

In by Simone

Febbraio 2011. La cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini, sembra essere arrivata in Cina. La polizia è in assetto antisommossa e i giornalisti sono chiamati uno a uno in questura. Quattro "pericolosi" giornalisti raccontano "la primavera mancata" in un libro (per gentile concessione della casa editrice L’asino d’Oro).
Una telefonata nella tarda mattinata di domenica 27 febbraio 2011. Numero anonimo. Una voce maschile si accerta di essere in contatto con un giornalista italiano, poi passa a un inglese impeccabile dal forte accento cinese. All’inizio mi sembra una di quelle chiamate pubblicitarie che propongono favolosi investimenti finanziari o immobiliari agli stranieri, ma l’equivoco si chiarisce in qualche secondo: dall’altro lato della linea c’è un poliziotto e non sta cercando di vendere niente. Convocazione «urgente» al commissariato di polizia di Andingmen nel giro di qualche ora.

Da sabato – sei giorni dopo la passeggiata dei Gelsomini – le forze dell’ordine hanno iniziato a convocare uno per uno tutti i corrispondenti stranieri. Era nell’aria, ma non pensavo sarebbe arrivata così presto: i programmi del pomeriggio, tra cui fare un giro a Wangfujing per vedere che aria tirasse dopo il secondo appello diffuso via web, dovevano essere rivisti. Nell’atrio della stazione di polizia, un piano più in basso rispetto a dove si ritirano visti e permessi di soggiorno, ci sono un collega giapponese e Marco Del Corona. «Sembra l’inizio del film I soliti sospetti», dice. Ridiamo a bassa voce, forse per stemperare un po’ la tensione. Una convocazione così massiccia non si era mai vista. Solamente a Pechino ci saranno tra le 700 e le 800

persone munite di un visto giornalistico. Stanno davvero chiamando tutti, come si dice da venerdì sera? Perché siamo tra i primi?

Due funzionari in divisa controllano i nostri documenti. Trasmettono cortesia puramente formale. Uno di loro cerca di imbastire una conversazione banale: «Da quanto tempo vivete a Pechino? Parlate cinese?». Poi passa a dettagli più approfonditi per saggiare il terreno: «Sappiamo che ha cambiato casa recentemente, come si trova nel nuovo quartiere? Rinnoverà il visto anche per il 2012? La sua azienda le rinnoverà il contratto in Cina

per un altro anno o la manderà in qualche altra nazione? ». L’altro si limita a osservare con sussiego, non proferisce parola, il cipiglio d’ordinanza indossato come un elmetto.

Quando arriva il nostro turno, il poliziotto silenzioso ci separa dagli altri giornalisti e ci conduce attraverso un corridoio a un’ampia sala illuminata da luci al neon. Poltrone in finta pelle rossa, tappeti, tre funzionari in uniforme. Il più giovane si presenta prima in cinese, poi in inglese, e introduce il superiore, un uomo sulla cinquantina. Il terzo poliziotto riprenderà l’intera conversazione da dietro una telecamera. Sui tavolini, le immancabili

tazze di tè: «essere invitati a prendere un tè», in Cina, è un’espressione colloquiale per dire che si è stati convocati al commissariato.

«Lo scopo di questa conversazione è di ricordarle le leggi della Repubblica popolare cinese che regolamentano la presenza della stampa straniera», dice il poliziotto anziano. Ho fatto i compiti a casa: porto con me una copia della legge approvata per le Olimpiadi di Pechino del 2008, che sulla carta concedeva ampie libertà ai giornalisti, una norma che è stata estesa dopo la fine dei Giochi e che è tuttora in vigore. Estraggo un blocco di appunti e la copia della legge, per averla sempre sotto gli occhi. 

«Non esiste una cosa che si chiama ‘Rivolta dei Gelsomini’ in Cina. Domenica scorsa si sono verificati degli assembramenti che hanno turbato la quiete di un luogo pubblico e dovrebbe essere anche nell’interesse dei giornalisti stranieri mantenerla». Faccio presente che mi sono presentato sul posto con il tesserino giornalistico in vista, come prevede la norma. «Il punto non è questo. Vogliamo continuare a ricordarle il contenuto della legge.

Per esercitare il mestiere di giornalista in alcuni luoghi pubblici è necessario inoltrare una richiesta al comando di polizia di zona con un giorno di preavviso».

Obietto: «Ma non posso inviare la richiesta ventiquattr’ore prima se devo coprire un evento che si verifica improvvisamente, e nel caso in cui io non riesca a farlo i miei datori di lavoro penseranno che sono stato negligente ». La conversazione sta prendendo una piega leggermente assurda. Il poliziotto non si fa certo intimidire dalla logica apparentemente a prova di bomba delle mie argomentazioni. Anzi, prosegue per la sua strada.

«Nel caso in cui voglia intervistare qualcuno in un luogo pubblico, deve presentare richiesta agli organi competenti, cioè al comando di polizia».

Ribatto: «Mi scusi, ma questo confligge con la norma del 2008 che lascia ai giornalisti la libertà di intervistare i cittadini cinesi. O forse è stata sospesa?». «La norma è ancora in vigore, ma alcune delle questioni relative alla stampa straniera che erano di competenza del Ministero degli Esteri adesso sono passate al Ministero di Pubblica sicurezza».

Il poliziotto non lo sta dicendo esplicitamente, ma la questione è abbastanza chiara. Davvero sono bastati alcuni appelli su internet e una folla di qualche centinaio di persone a Pechino, domenica scorsa, per introdurre quella che di fatto è una mini legge marziale? Penso alla catena di dissidenti che sono scomparsi da casa negli ultimi giorni senza dare notizie. 

Le possibilità sono due: o il regime proietta ombre sui muri, ingigantendole, oppure i funzionari sanno qualcosa di cui tutti, media, analisti ed esperti, sono completamente all’oscuro. La mente va all’enorme insabbiamento di anni prima, ai tempi della Sars. Non avevo ancora mai visitato la Cina. Chi c’era, come Beniamino Natale, racconta lunghi giorni di paranoia, in cui le voci e gli allarmi si rincorrevano continuamente, alimentati dalla cappa della censura.

«Quali sono le competenze del Ministero di Pubblica sicurezza che riguardano il mio lavoro?» domando. «Semplicemente quelle che le ho illustrato. Quando vorrà recarsi in un luogo pubblico per fare un’intervista, esercitando le sue funzioni di giornalista, si accerti di inviare prima un fax al comando di polizia». «E se il fatto avviene proprio in quel momento?» continuo quasi affascinato dalla spirale in cui si sta avvitando il mio tè pomeridiano al commissariato di Andingmen.

«Si vedrà al momento stesso. Ovviamente, le stesse regole valgono per le riprese video». «Posso chiedervi perché state riprendendo questa conversazione, allora?». Il poliziotto si è evidentemente annoiato di me e fa segno al funzionario più giovane che abbiamo finito. Quando vengo riaccompagnato fuori sono ormai le quattro del pomeriggio, probabilmente troppo tardi per raggiungere Wangfujing e vedere se la tremenda protesta

dei Gelsomini ha colpito nonostante le misure delle forze dell’ordine.

Decido di tentare comunque. Cara, vecchia Wangfujing: finisci per vivere anni in una città e non ci vai mai. Un po’ come con la Città Proibita: capitano alcune visite ravvicinate – amici, parenti – e ti ci ritrovi per due weekend consecutivi, a fare la fila, farsi scattare foto da turisti cinesi e poi dentro, camminare e ammirare leoni di marmo, strisciate di pietre, con qualche cinese che affranto, sussurra: «Le parti più belle sono a Taiwan».

Così con Wangfujing: da quanto non capitava di andarci per due domeniche di fila, a febbraio? Impossibile ricordarlo, forse appena arrivato in città, per provare l’ebbrezza delle bancarelle del mercato notturno che offrono come snack scorpioni e formiche o per comprare una mappa di Pechino che offra anche i caratteri occidentali. Ma se c’è aria di rivolta, allora sì che ci si torna spesso, perché se poi succede davvero? Magari tu stavi passeggiando serenamente altrove, in un parco reso chiaro dalla nebbia invernale che mischia smog e chissà che altro, proprio mentre nel centro di Pechino sbocciava il neurone che illumina: quello della rivolta.

La Cina, dunque, sarebbe sull’orlo della rivoluzione? Dopo uno sbadiglio, la domanda è: di nuovo? Perché dopo ogni sciopero, ogni tentativo di manifestazione, dopo ogni premio Nobel o discorso che arrivi da Washington, su Google, il Dalai Lama, i diritti umani, la carne di cane, i bambini rapiti, il Partito comunista, sembrerebbe che il paese sia sull’orlo di una rivoluzione, che poi puntualmente non c’è. Così è accaduto anche domenica 20 febbraio con la non-rivolta dei Gelsomini, andata in scena sugli schermi dei computer degli occidentali e di pochi cinesi (e ancora meno erano quelli per strada, se non si contano i giornalisti e i poliziotti).

Mentre scettico e vagamente infastidito mi avvicino a Wangfujing, ripenso a come si è arrivati a tutto questo. Il dissidente in esilio negli Usa, Wang Dan, ha salvato l’appello in cinese sulla sua pagina di Facebook, dopo che in precedenza l’annuncio era apparso su Boxun.com e poi su Canyu.org. Infine nella serata di sabato sera era partito sui microblog l’hashtag cn220. Si tratta del testo con il quale è stata convocata una manifestazione, la Jasmine Protest, in tredici città cinesi, sulla scia di quanto accaduto nel mondo arabo.

Un appello che non è stato raccolto dai dissidenti più in vista, come il famoso architetto Ai Weiwei, né da coloro ancora non costretti agli arresti domiciliari temporanei, e per di più veicolato da social network che qui in Cina, oltre a essere oscurati, sono utilizzati da una microscopica minoranza tra i giovani cinesi. L’attitudine dei curiosi, osservando con un minimo di attenzione le fotogallery pubblicate dai maggiori quotidiani mondiali dopo la prima giornata di ‘protesta’, fa pensare molto più agli spot ‘Italia 1’ che alla determinazione di piazza Tahrir: curiosi sorridenti e foto in posa davanti al capannello di persone sono immagini che non meritano di essere affiancate alle sommosse nordafricane.

Al secondo giro però niente può considerarsi ormai una sorpresa. Armato di guida turistica, mappa di Pechino attaccata alla bell’e meglio con lo scotch (esattamente quella comprata quel giorno di quell’anno in cui si era appena arrivati alla libreria di Wangfujing), decido di scendere alla fermata di metro prima di quella giusta. Hai visto mai che i controlli inizino proprio all’imbocco della stazione dei treni? E poi conviene fare due passi a piedi

per valutare la situazione. È una sensazione cinese: la certezza che niente stia per accadere, unita all’ansia che potrebbe accadere qualsiasi cosa, ovviamente spiacevole.

Appena arrivo – senza segnalarlo a nessuno, perché non ho intenzione di fare riprese, né di intervistare qualcuno, a meno che non sia testimone di un evento improvviso – capisco quanto è forte il potere della suggestione. Qualcuno sta suonando la grancassa di internet e il Ministero di Pubblica sicurezza balla al suo ritmo: lo spiegamento di forze dell’ordine è effettivamente notevole, ancora superiore rispetto alla settimana precedente. Moto, camionette, poliziotti in uniforme e in borghese, i soliti veicoli muniti di antenne per paralizzare le telecomunicazioni: che bisogno c’è di manifestanti in carne e ossa, quando si può creare confusione semplicemente postando messaggi sul web? I poliziotti in borghese si riconoscono perché sono armati di cellulari, auricolari e macchine fotografiche, o addirittura di videocamere agganciate al bavero delle giacche. E c’è anche un giornalista

polacco, la prima persona che incrocio nella via: con il caffè del McDonald’s in mano, ci guardiamo e ridiamo.

Ancora il McDonald’s, infatti, come punto di ritrovo. C’è chi sosterrà nei giorni seguenti che per compiere il gesto di rivolta fosse necessario ordinare il menu numero tre. Perché? Inutile chiederlo ai poliziotti, cui invece chiedo se posso entrare nella via. Dicono di no. «Perché? ». «C’è un’attività», rispondono con la solennità della frase finale. Un diniego talmente denso di significati, che alla seconda entrata imbuco la via senza che nessuno si accorga di niente. Faccio in tempo a vedere una troupe redarguita energicamente da un gruppo di persone che sembrano più scagnozzi appena usciti ebbri dall’Hollywood di Milano che agenti venuti da una stazione di polizia cinese (scoprirò poi che sono volati anche un paio di schiaffi) e noto una ragazza portata via da due poliziotti. Una pericolosa attivista, forse, armata di macchina fotografica e di temibilissimi occhiali senza lenti, da registrare sotto la categoria degli «attivisti trendy». 

In questo clima un po’ sgraziato, da film dell’assurdo, si fa presto a recuperare la concentrazione. La polizia è ovunque e il silenzio impressiona. Tutto sembra ovattato. La realtà è un agente che fa segno di allontanarsi in fretta. C’è movimento e alla mia sinistra si staglia la libreria Xinhua. Non faccio in tempo a fare finta di guardare sulla mappa, cercando di simulare il tentativo di capire in quale astrusa zona della città mi sono ritrovato, che alcuni

idranti innaffiano la strada, bagnandomi e costringendomi a ripiegare all’interno della libreria. Dentro ci si guarda con sospetto: chi è un turista? Chi un poliziotto?

Chi un attivista? Niente da fare, dalle finestre della libreria osserviamo: gli idranti sgomberano la strada, di manifestanti neanche l’ombra, anche i giornalisti sembrano non crederci più e sono ormai pochi. Alcuni, scoprirò poi, non sono stati fatti entrare, altri erano a bere dei tè allungati da domande inconsuete in compagnia di poliziotti, altri ancora avevano deciso che non ne valeva la pena. «Se c’è la rivoluzione, chiamatemi», twitta la

corrispondente di Al Jazeera. Eppure… Esco con una collega spagnola e scegliamo la strategia del militare con un cuore: ci prendiamo mano nella mano e attraversiamo la selva di poliziotti. Mica fermeranno una coppietta di turisti rintronati dalla confusione e con i pantaloni appena inumiditi dallo spruzzo d’acqua! Infatti non ci fermano, ma giunti quasi alla fine della via, veniamo allontanati. La strada è chiusa, ci viene detto.

«Perché?» chiediamo. «C’è un’attività» ci viene nuovamente risposto. A parte una massiccia presenza di autopompe che a un certo punto hanno innaffiato la strada bagnando i passanti, non c’è stato nulla da registrare. Wangfujing sembra una beffa. Eppure, nei giorni successivi, emergeranno

molti aspetti spiacevoli sul pomeriggio del 27 febbraio 2011. Alcuni giornalisti occidentali muniti di telecamere sono stati attirati in stradine laterali attorno a Wangfujing da gruppi di persone in borghese che li hanno picchiati e hanno danneggiato il loro equipaggiamento. La fidanzata cinese di un reporter straniero è stata convocata dalla polizia. E questo è ancora nulla rispetto all’ondata di arresti extragiudiziali che si sta per scatenare. Ma questo ancora non lo sappiamo.

*Gli autori del libro sono: Sonia Montrella, Simone Pieranni, Alessandra Spalletta e Antonio Talia. Con la collaborazione delle redazioni di AgiChina24 e China Files.