La piazza anti-immigrazione di Singapore

In by Simone

Il basso tasso di natalità della città-Stato mette a rischio la competitività nel simbolo del capitalismo autoritario. Il governo vuole far crescere la popolazione di un terzo entro il 2030. Per farlo servono gli immigrati, cui i singaporiani imputano tuttavia l’aumento del costo della vita sull’isola. “Conta la qualità non la quantità”, è stato uno degli slogan della manifestazione di sabato contro le politiche sull’immigrazione decise dal governo di Singapore. In piazza erano circa tremila, ma abbastanza per fare della protesta il raduno più partecipato dagli anni Sessanta del secolo scorso, se si escludono le manifestazioni elettorali.

Bersaglio dei singaporiani è stato il Libro bianco sulle politiche demografiche approvato nelle scorse settimane dal Parlamento. Con 5 milioni di cittadini su una superficie di 660 chilometri quadrati Singapore è il secondo Paese più densamente popolato al mondo, subito dietro il principato di Monaco. La città-Stato governata con piglio autoritario e paternalista deve tuttavia confrontarsi con un tasso di natalità basso -1,2 figli per donna- che rischia di minarne la competitività economica.

Il piano dell’esecutivo guidato da Lee Hsien Loong prevede che la popolazione aumenti di un terzo entro il 2030, toccando quota 6,9 milioni. Di questi buona parte saranno stranieri, anche perché gli incentivi e le misure per favorire la natalità avranno risultati soltanto nel lungo termine. Per sette anni consecutivi la città si è piazzata in cima alla classifica dei Paesi dove più facile è fare affari, sebbene inizi a sentire nella regione la concorrenza di altre possibili mete di investimento, come la Malaysia.

Per mantenere il proprio status Singapore ha bisogno di immigrati qualificati, tasto dolente per i cittadini che agli stranieri imputano l’aumento del costo della vita, soprattutto case e trasporti, e la congestione del sistema infrastrutturale. Contraddizioni emerse lo scorso novembre con lo sciopero non programmato di un centinaio di autisti di autobus cinesi che chiedevano l’adeguamento del proprio salario a quello dei colleghi di altre nazionalità. I disservizi nella città-Stato nota per l’ordine e la precisione scatenarono il dibattito.

Per la comunità finanziaria invece rilassare le norme sui visti servirebbe. Lo ricorda Jeremy Grant sul Financial Times nel parlare delle difficoltà per le società che intendono assumere dipendenti stranieri qualificati. Il problema sono i requisiti salariali minimi per ottenere il visto che permette di rimanere sei mesi a Singapore quando si è in cerca di un nuovo lavoro. La cifra è stata portata da 20mila a 87mila euro, colpendo soprattutto i colletti bianchi impiegati nelle grandi multinazionali.

“Anch’io preferirei meno stranieri però…” inizia così l’intervento del ministro per le Risorse idriche e l’Ambiente, Vivian Balakrishnan, in difesa delle politiche governative. “Non si tratta tanto di bambini quanto di invecchiamento”, ha scritto sul suo blog, “Nel 2030 il numero dei singaporiani sopra i 65 anni sarà triplicato e arriverà a 900mila. Chi si prenderà cura di noi. Oggi per ogni anziano ci sono sei persone che lavorano. Nel 2030 saranno soltanto due”.

Gli organizzatori della protesta di sabato hanno cercato di allontanare dalla manifestazione l’ombra del razzismo e della xenofobia, scrive l’Economist. Alcuni hanno anche cercato di non farla sembrare troppo politica. In rete si legge della scarsa attenzione che il raduno ha ricevuto dai principali quotidiani, come lo Straits Times. Sarà perché da molti è stato letto come un segnale di malcontento verso il governo del People Action Party che ha governato ininterrottamente la città-Stato sin dall’indipendenza nel 1965 prima con il padre della Patria, Lee Kuan Yew e ora con il figlio Lee Hsien Loong.

Il Pap gode ancora di 80 seggi su 87 al Parlamento. Lo scorso 27 gennaio la sconfitta nelle suppletive per il seggio della circoscrizione di Punggol East, andata al Partito dei lavoratori, è stata la seconda battuta d’arresto dalle legislative del 2011, tornata in cui il partito-Stato ha fatto registrare il suo peggior risultato. Colpa del crescente divario tra ricchi e poveri. Le disparità sono in aumento rispetto all’inizio del decennio. Il coefficiente di Gini è salito dallo 0,444 del 2000 allo 0,48 dell’anno scorso. Mentre la città continua a essere la terza più cara del continente e la sesta a livello mondiale. Abbastanza perché i cittadini cerchino un capro espiatorio.

[Scritto per Il Foglio. Foto credit: townhall.com]