“Il dragone cinese e l’elefante indiano non combatteranno più tra di loro, ma danzeranno”. Era il 2018 quando Wang Yi, il ministro degli Esteri di Pechino, dichiarava chiusa la crisi del Doklam e proiettava i rapporti con Nuova Delhi su una nuova dimensione. Due anni dopo, però, quella danza sembra essere più un difficile lavoro di equilibrismo col rischio di cadere giù. Sono ormai settimane che Cina e India sono coinvolte in un teso confronto tra militari in più punti dell’enorme confine (circa 3500 chilometri), in parte conteso. Costruzioni, manovre e incursioni reciproche sono già sfociate in scontri e (molto probabilmente) presa di prigionieri. E, mentre Donald Trump prova a sfruttare l’occasione per arruolare Narendra Modi contro la Cina in un G7 allargato, i rapporti tra i due giganti d’Asia rischiano di precipitare ai minimi dopo decenni di relativa tranquillità. In un momento nel quale la Cina ha diversi grattacapi con i suoi “vicini di casa”.
I CONFINI CONTESI
Quella tra Cina e India è una contesa territoriale che ha più di un secolo, sin dalla linea McMahon tracciata nel 1914 e non riconosciuta da Pechino perché frutto di un accordo tra il Tibet autonomo e l’India britannica, con cessioni di una parte importante di territorio da quella che sarebbe poi diventata una regione autonoma della Repubblica Popolare. Una contesa che riguarda diverse aree. In primis l’Aksai Chin, regione montuosa del Kashmir in mano alla Repubblica Popolare dalla guerra sino-indiana del 1962, nella quale sono morti circa duemila soldati. Si tratta di un’area montuosa che funge da strategico collegamento tra Tibet e Xinjiang e che Nuova Delhi continua a rivendicare come parte del Ladakh, una delle divisioni dello stato di Jammu e Kashmir. Non solo. L’Aksai Chin ha un’altra porzione di territorio ceduta nel 1963 alla Cina dal Pakistan e che funge da cuscinetto tra Xinjiang e l’entità autonoma del Gilgit-Baltistan, controllata da Islamabad.
La coda allungata dell’Aksai Chin tocca anche la zona strategica del lago himalayano Pangong Tso, che dal territorio indiano arriva a toccare il principale snodo stradale del Tibet. Il tutto dopo essere passata anche a toccare altri due stati indiani, l’Himachal Pradesh (dove col benestare di Nuova Delhi risiede, nella città di Dharamsala, il Dalai Lama fuggito dal Tibet dopo l’arrivo di Mao nel 1950) e l’Uttaranchal. Scendendo a sud est, invece, si trovano altre due aree dove la tensione è alta. La prima è quella del Sikkim, incastonato tra Nepal e Bhutan ed entrato a far parte dell’India nel 1975 con un referendum. La seconda, andando ancora più verso oriente dopo il Bhutan, è quella dell‘Arunachal Pradesh, stato controllato dall’India ma rivendicato da Pechino.
Su tutte queste zone si sono vissuti a più riprese momenti di tensione per contese mai risolte. L’ultima delle quali era datata estate 2017, quando per le rispettive truppe si sono fronteggiate per due mesi sull’altopiano di Doklam, collocato in un’area a cavallo tra India, Cina e Bhutan. Un confronto nato per la costruzione di una strada da parte dei cinesi, che gli indiani reputavano sorgere sul territorio bhutanese.
I NUOVI SCONTRI
Dopo quasi tre anni di calma le tensioni sono però tornate. Tutto nasce da movimenti contrapposti, che hanno preso il via con la realizzazione di una strada sul passo di Lipulekh, nei pressi di un’area contesa tra India e Nepal. India che ha iniziato anche costruzioni militari dal suo lato di confine nel territorio di Ladakh. Nuova Delhi è particolarmente attiva negli ultimi mesi nell’area, con l’allestimento di nuove infrastrutture e in particolare di una strada ad alta quota che sfiora uno dei luoghi in cui si sono verificati scontri nel 2013 e di un tunnel. Opere volte a favorire il movimento delle truppe lungo il confine conteso e che ha dunque messo in allarme la Cina, i cui militari avrebbero invece, secondo fonti indiane, sforato oltre la linea di controllo “distruggendo postazioni e ponti”. Fino a toccare la valle del fiume Galwan, che finora non era stata oggetto di dispute.
Se in questa porzione le truppe di Nuova Delhi sembrano aver guadagnato posizioni a livello strategico e rappresenterebbero un ostacolo considerevole per quelle di Pechino, i cinesi sono, secondo diversi analisti, in netto vantaggio nelle altre due sezioni contese, il Sikkim e l’Arunachal Pradesh. Ed è proprio qui che, specularmente a quanto accade più a nord ovest, l’India guarda con attenzione le manovre delle truppe cinesi al confine. Con Pechino che, sempre specularmente a quanto accade tra Ladakh e Aksim Chin, accusa Nuova Delhi di aver eretto “strutture illegali” di difesa e di aver travalicato la linea di controllo.
Manovre reciproche che hanno portato a una serie di confronti, a partire dal 5 maggio, quando due contingenti si sono scontrati nella zona del lago Pangong Tso a suon di schiaffi, pugni e lancio di pietre. Tre giorni dopo, un secondo confronto al passo di Naku La, nel Sikkim, con le truppe indiane che hanno fermato una pattuglia cinese in perlustrazione.
Non è chiaro quanti militari siano coinvolti nel confronto, anche se l’India sostiene che tutto nasca proprio dallo schieramento di un numero eccessivo di truppe (secondo alcune informazioni sarebbero cinquemila) in corrispondenza del lago Pangong Tso da parte della Cina. Continua a essere rispettato il patto di non aprire il fuoco, che regge dal 1975 e i due governi continuano a ripetere che la situazione è “stabile e sotto controllo“. Ma le preoccupazioni che erano cominciate già dalla revoca dell’autonomia del Kashmir da parte dell’India, che aveva portato a una pericolosa escalation con il Pakistan, sono in aumento.
LE RELAZIONI PERICOLOSE TRA CINA E INDIA
Ma c’è anche chi ritiene che la reazione cinese di fronte alle costruzioni indiane sia motivata anche da motivi geopolitici e diplomatici. Quasi di avvertimento per dire di non schierarsi con gli Stati Uniti, che stanno provando ad arruolare Nuova Delhi nella sua contesa globale con Pechino. Un’impresa difficile, vista la sua posizione tradizionalmente non allineata, che però rappresenta il più immediato e vero spauracchio dell’ascesa cinese. L’India non ha mai visto di buon occhio la Via della Seta, il progetto del PCC considerato da Modi come un’invasione di campo non solo infrastrutturale ma anche diplomatica nella sua tradizionale sfera di influenza regionale. Basti pensare a che cosa è successo in Sri Lanka e al porto di Hambantota, o agli investimenti nelle Maldive. O in Nepal, dove Xi Jinping è stato per una storica visita negli scorsi mesi. Senza contare l’alleanza tra Cina e Pakistan, dove il porto di Gwadar (terminale del corridoio sino-pakistano che parte dalla città di Kashgar nello Xinjiang) può diventare una spina nel fianco per l’India e trampolino di lancio per l’estroversione cinese, consentendo di aggirare lo stretto di Malacca. Nonostante i ripetuti inviti, Modi non ha partecipato all’ultimo forum Belt and Road di aprile 2019 a Pechino.
Rispetto ad altri paesi asiatici, l’India non è assimilabile nel progetto cinese, né sinizzabile. I due summit, nel 2018 e nell’ottobre 2019, tra Xi e Modi hanno rilassato i rapporti ma il grande rilancio a cui si puntava non è mai avvenuto. Nuova Delhi si è invece avvicinata molto al Giappone, altro rivale strategico di Pechino. E la pandemia non ha fatto che accelerare alcuni processi in atto, come per esempio la ricerca dell’autosufficienza da parte indiana, che mal sopporta l’immenso surplus commerciale della Repubblica Popolare nei suoi confronti. Non sarà semplice, se si considera la grande dipendenza dal mercato cinese in alcuni settori cruciali: il 90% dell’import dei farmaci salvavita arriva da lì, così come l’80% dell’equipaggiamento medico e il 30% delle componenti per auto.
Negli scorsi giorni, il Global Times ha pubblicato diversi articoli in cui avverte l’India di non schierarsi con Washington in una nuova guerra fredda. E la tensione, da strategico-militare rischia di diventare anche economica e diplomatica, come dimostra lo stop all’import di carne suina indiana introdotto da Pechino. Dall’altra parte, l’India è invitata a entrare in una sorta di alleanza anti Huawei sul 5G e alcuni esponenti del Bjp (il partito di maggioranza) che si sono esposti per l’inclusione di Taiwan all’assemblea dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Con il Partito Comunista che minaccia conseguenze per le imprese e i produttori indiani. Donald Trump si è persino offerto di mediare tra i due contendenti sul tema del confine conteso (offerta per ora respinta da entrambi i governi) e, come detto, vuole includere Nuova Delhi nel G7 allargato dopo l’estate.
Complicato che il G11 trumpiano vada in porto, ma intanto truppe e artiglieria continuano ad ammassarsi lungo il confine conteso tra Cina e India. Dragone ed elefante stanno conducendo una danza rischiosa.
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.