La scorsa settimana ci sono statele elezioni presidenziali nelle Maldive. Il paese, ben noto come meta turistica, è arrivato all’appuntamento dopo un periodo piuttosto burrascoso dal punto di vista politico. Dopo golpe, proclamazione dello stato di emergenza e arresto – o esilio – dei principali avversario, l’ex presidente Yameen era considerato strafavorito. Questo pronostico contava su un fatto rilevante: era lui il candidato appoggiato dalla Cina.
Quando si è infine scoperto l’esito del voto, ovvero una clamorosa sconfitta di Yameen, a Pechino di sicuro non devono averla presa bene. A vincere è stato il rappresentante dell’opposizione, vicino all’India, uno dei paesi più preoccupati per quanto potrebbe succedere in Asia a seguito dell’aumento di egemonia da parte di Pechino. E la vittoria dell’opposizione ha avuto come causa principale proprio la paura di ritrovarsi, da qui a poco, completamente indebitati con Pechino.
La Cina aveva finanziato vari progetti nelle Maldive, tra cui uno storico «ponte dell’amicizia» che collega la capitale all’aeroporto internazionale; un chiaro segnale di come Pechino veda il suo mastodontico progetto di «Nuova via della seta» impegnato su più fronti. In primo luogo su quello puramente commerciale, esercitato attraverso la volontà di creare nuove rotte per scaricare su nuovi mercati il suo surplus manifatturiero.
C’è poi un importante rilievo geostrategico che costituisce – in questo momento – uno dei principali intoppi del «progetto del secolo»: i prestiti cinesi stanno cominciando a incutere timore tra i paesi che li ricevono, per il rischio di un indebitamento eccessivo. Secondo alcune analisi, dall’annuncio del progetto da parte di Xi Jinping nel 2013 ad Astana, fino al 2049, il centenario della Repubblica popolare cinese e il momento in cui la Nuova via della seta dovrebbe essere in stato avanzato, Pechino potrebbe investire da mille a 8mila miliardi di dollari. Cifre impressionanti.
Le Maldive sono l’ennesimo campanello di allarme per Pechino e seguono «sconfitte» locali già assaporate dalla Cina in Malaysia e in Myanmar, due paesi che di recente hanno bloccato o drasticamente diminuito alcuni progetti che in precedenza erano stati concordati con Pechino.
Per Xi Jinping e la stretta cerchia di collaboratori si tratta di segnali da non sottovalutare: sebbene il Pcc abbia previsto di perdere anche parti ingenti dei propri investimenti, anche in Pakistan, la sua nuova forza e postura internazionale cominciano a essere percepiti come «problematici». Di certo c’è però un dato: la Nuova via della seta è stata inserita nella costituzione del Pcc e sarà il progetto su cui tutto il paese sarà impegnato nei prossimi anni.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.