Le mosse del presidente cinese, nel suo primo anno al potere, ricordano le sottigliezze del gioco del weiqi, dove si tessono relazioni mentre si conquista territorio. Xi appare un ottimo stratega e ha saputo così avviare una campagna anticorruzione "selettiva" che lo rafforza al potere. Il gioco del weiqi – noto in Occidente come go, che è il suo nome giapponese – riflette bene l’importanza strategica assegnata in Cina alle cosiddette “guanxi”, la “rete di connessioni”, il fattore che maggiormente determina le possibilità di successo, tanto negli affari, quanto in politica. Lo stesso accade nel weiqi, un gioco da scacchiera che ha come obiettivo quello di conquistare, pedina dopo pedina (dette in gergo “pietre”), un territorio sempre più ampio, creando nel frattempo tutta una serie di connessioni tra le pietre, formando dei gruppi, che permettono di difendersi meglio dagli attacchi dell’avversario nelle fasi decisive della partita. Un gruppo di pietre si dice “vivo” fino a quando gli rimangono delle “libertà” (spazi vuoti intorno o all’interno del gruppo stesso), o fino a che non si riesca a realizzare degli “occhi”, ossia creare degli spazi vuoti all’interno dei raggruppamenti che l’avversario non può occupare, rendendo così inattaccabile il gruppo di pietre. Nel corso della prima fase di gioco, i due avversari cercano di conquistare e rafforzare il proprio territorio, delineando i confini di quella rete di connessioni che prenderà poi lentamente forma nel corso della partita. In una seconda fase, si completano i gruppi di pietre e si attaccano quelli incompleti dell’avversario, cercando di “tagliare” le connessioni, “isolare” le singole pietre o piccoli gruppi di esse, per poi mangiarle ed eliminarle dalla scacchiera. In questo modo si cerca di evitare che le varie reti di connessioni rafforzino il loro potere fino al punto da diventare inattaccabili o, peggio, una minaccia per il proprio territorio.
Nell’ultima fase di gioco, quando i rapporti di forza tra i due “schieramenti” sono evidenti, chi si ritrova in inferiorità – in termini di territorio conquistato e/o di numero di pietre vive – si arrende all’avversario, riconoscendone la vittoria. Il gioco termina quando i giocatori passano reciprocamente, indicando che nessuno dei due è più in grado di incrementare il proprio territorio o diminuire quello dell’avversario.
Sebbene apparentemente semplice, il weiqi richiede notevoli capacità strategiche ed è fondamentale saper “leggere” come evolve la partita. Visto l’elevatissimo numero di possibili combinazioni, si ritiene che sia di fatto impossibile che una stessa partita sia ripetuta più di una volta.
La situazione politica che si è venuta delineando in Cina, dopo il cambio di leadership dello scorso anno, sembra riprodurre dinamiche abbastanza simili a quelle sopra descritte e, a giudicare dalle mosse finora attuate dai giocatori coinvolti, tutto lascia pensare che l’attuale presidente cinese, Xi Jinping, stia conducendo con grande abilità la sua partita.
“Una giocata non è mai buona o cattiva – è il modo in cui ci si serve di quella pietra che è buono o cattivo”
Dopo essere stato nominato segretario del Partito, nel corso del XVIII Congresso tenutosi a Novembre 2012, Xi Jinping ha assunto la carica di presidente della Repubblica popolare cinese il 14 marzo del 2013. Nel corso di questo primo anno in carica, oltre a coltivare un’immagine internazionale più positiva e più moderna rispetto al suo predecessore, si è mosso sul fronte interno portando avanti una strategia finalizzata a rafforzare in fretta la sua posizione e a eliminare, al contempo, potenziali nemici.
Una delle prime mosse è stata quella di assumere, insieme a quella di segretario del Partito comunista e di presidente del paese, anche la carica di capo della potente Commissione Militare Centrale – fatto questo abbastanza insolito; di norma questa è una posizione mantenuta, provvisoriamente, dal presidente uscente.
Come presidente della CMC, Xi è attualmente il più alto comandante delle forze armate della nazione. A differenza del suo predecessore Hu Jintao, ha saputo consolidare rapidamente la sua influenza militare già dalla fine del 2012, promuovendo decine di generali di alto livello a lui fedeli. Nel corso della terza sessione plenaria del 18° Comitato Centrale (novembre 2013), il partito ha inoltre istituito un nuovo organismo, il Comitato per la Sicurezza Nazionale del Partito comunista cinese – corrispettivo cinese della National Security Commission degli Stati Uniti -, con la funzione di consolidare la leadership politica dei vari apparati di sicurezza del paese. Xi Jinping, come segretario del partito, ha assunto anche la guida di questo nuovo Comitato.
Oltre a consolidare rapidamente il suo “territorio”, Xi Jinping non ha perso tempo creando immediatamente le premesse per attuare quella che, ad una attenta analisi, appare come una strategia atta a “tagliare” la rete di connessioni dei suoi avversari politici.
Subito dopo aver assunto la carica di segretario generale del partito, Xi Jinping ha infatti lanciato una campagna anti-corruzione indirizzata sia ai quadri di partito di rango inferiore – le “mosche” -, sia a quelli più potenti – le “tigri” -. L’offensiva di Xi Jinping non ha però preso di mira solo i funzionari civili, ma anche esponenti di spicco dell’Esercito popolare di liberazione (Epl).
“Se non si può fare il drago, si fa la tigre”
La corruzione è sicuramente un male endemico che affligge la Cina, quindi di per sé gli sforzi per combatterla hanno una connotazione neutra dal punto di vista politico. Tuttavia, l’uso selettivo delle indagini, che hanno colpito principalmente membri di una determinata fazione del partito – e molte persone a loro fedeli o parenti -, fa venire più di un dubbio circa il reale fine politico dell’attuale lotta alla corruzione.
A tal proposito è esplicativo il differente trattamento riservato a due esponenti di spicco della quarta generazione della leadership: Zhou Yongkang e Wen Jiabao. Il primo è al centro dell’inchiesta per corruzione di più alto profilo dalla fondazione della Repubblica popolare cinese. Come ex membro del Comitato Centrale del Politburo, Zhou Yongkang avrebbe in teoria “diritto” all’immunità, secondo quelle che sono le regole non scritte del partito. Ciononostante, Xi Jinping, coadiuvato da Wang Qishan, l’attuale ministro della Pubblica Sicurezza e responsabile della campagna contro la corruzione, ha portato avanti una dura offensiva senza precedenti contro gli alleati, i parenti e i soci in affari dell’ex zar della sicurezza, prima di quella che si prospetta come una inevitabile resa dei conti finale.
Tra le persone indagate figurano: Liang Ke, ex direttore dell’Ufficio di Pechino della Sicurezza di Stato (i servizi segreti); il figlio maggiore di Zhou Yongkang, Zhou Bin, nell’ambito dell’inchiesta su China Petroleum; Liu Han, un socio in affari di Zhou Bin, accusato tra le altre cose di essere il boss di una gang di stampo mafioso del Sichuan; Ji Wenlin, ex sindaco di Haikou e collaboratore di Zhou Yongkang; Li Dongsheng, ex vice ministro della Pubblica Sicurezza, nominato nel 2009 dall’allora capo dei servizi segreti; Shen Dingcheng, vice presidente di PetroChina International, che è stato capo della China National Petroleum Corporation dal 1992 al 1997, quando Zhou Yongkang ne era vice direttore e direttore generale.
Al contrario, l’ex premier Wen Jiabao – rimasto coinvolto in uno scandalo rivelato da un approfondito reportage del New York Times del 25 ottobre 2012, che avrebbe potuto portare ad un esito analogo a quello del caso Zhou Yongkang –, non è stato ufficialmente indagato, né dagli organi disciplinari del partito, né dalla giustizia ordinaria. Da quanto emerso dall’inchiesta giornalistica condotta dal giornale americano – successivamente censurato in Cina continentale – Wen Jiabao avrebbe approfittato della sua posizione di premier per favorire gli affari dei suoi familiari. Quanto basta per aprire un’indagine interna al partito per “gravi violazioni disciplinari”. A differenza di Zhou Yongkang, Wen Jiabao ha manifestato, però, implicitamente il suo supporto al nuovo presidente, lodando l’operato del padre di Xi Jinping, Xi Zhongxun (1913-2002), un ex primo ministro ed ex membro del Politburo, in occasione del centesimo anniversario della sua nascita.
“La vita del compagno Zhongxun è stata piena di battute d’arresto”, – ha dichiarato Wen Jiabao nel corso di una intervista rilasciata alla CCTV il 16 ottobre del 2013, – “ma era onesto, generoso, diretto e giocava secondo le regole”. Quasi un invito rivolto al nuovo presidente a seguire l’esempio del padre.
Dopo queste dichiarazioni, Wen Jiabao sembra essere uscito indenne dallo scandalo potenzialmente distruttivo per lui e i suoi familiari coinvolti nella faccenda. Nel caso dell’ex premier tutto è stato, infatti, messo prontamente a tacere e arginato dalla censura che ha chiuso il sito del giornale americano e cancellato ogni riferimento sull’internet cinese.
Questo differente trattamento riservato a due potenti leader in pensione di pari rango, evidenzia quella che è la natura politica della campagna contro la corruzione e lascia ipotizzare che Xi Jinping sapesse fin dall’inizio quale fosse la “tigre” più potente a cui dover dare la caccia nel corso della sua campagna.
Ciò è ancora più plausibile alla luce di quanto accaduto nei mesi che hanno preceduto la nomina di Xi Jinping, alla vigilia del ricambio generazionale in seno al partito comunista.