Una storia quella di Chiang Wan-an che riflette il rapporto dell’isola di Taiwan con l’ex presidente (e suo bisnonno) Chiang Kai-shek
Frequenta ancora il liceo, Wayne Chang, quando suo padre gli rivela che era il figlio illegittimo di Chiang Ching-kuo. Ciò significa che il bisnonno di Wayne si chiamava Chiang Kai-shek. Sì, il leader del Kuomintang e presidente della Repubblica di Cina che, persa la guerra civile contro i comunisti di Mao Zedong, fugge a Taiwan dove impone una lunga e severa legge marziale.
Qualche tempo dopo, quell’adolescente di nome Wayne decide di cambiare il suo nome in Chiang Wan-an, adottando dunque il cognome di quella figura così controversa. Oggi Wayne ha 44 anni e da poco più di un anno è il sindaco di Taipei. Candidato tra le fila proprio del Kuomintang, ha vinto nettamente il voto del novembre 2022 e ha conquistato un ruolo tradizionalmente considerato come l’anticamera della presidenza. Tre dei quattro presidenti democraticamente eletti dal 1996 sono stati primi cittadini della capitale: Lee Teng-hui, Chen Shui-bian e Ma Ying-jeou. Solo l’attuale leader Tsai Ing-wen sfugge alla regola. E c’è già chi sussurra che, in caso di sconfitta alle elezioni presidenziali del prossimo 13 gennaio, nel 2028 il Kuomintang possa puntare proprio su di lui.
La storia di Wayne/Chiang Wan-an, dice già tanto del rapporto conflittuale e sfaccettato che l’isola ha con quello che è stato il suo ex presidente (il nome ufficiale di Taiwan è infatti sempre rimasto Repubblica di Cina) ma che da molti è identificato principalmente come un dittatore, addirittura come un colonizzatore dopo la crescita del sentimento di alterità identitaria taiwanese.
Quando Chiang Kai-shek arriva a Taiwan, nel 1949, la legge marziale è già in vigore. Dopo il cosiddetto “incidente del 28 febbraio del 1947”, quando il palazzo del governatore generale viene preso d’assalto, arrivano dal continente circa diecimila uomini tra poliziotti e soldati. I leader della rivolta e le élite locali vengono massacrati. Gli stupri e le esecuzioni per le strade delle città e dei villaggi causano tra i 18 mila e i 28 mila morti. È l’anticamera di un’epoca passata alla storia come “terrore bianco” dove il Kuomintang è partito unico.
Al suo arrivo, Chiang porta con sé quasi due milioni e mezzo di continentali, in un momento in cui la popolazione totale di Taiwan è di circa sei milioni. Soldati, funzionari, imprenditori. L’isola principale di Taiwan è vissuta sostanzialmente come una base temporanea nell’attesa di riprendersi la Cina continentale. È qui che si crea la rottura tra waishengren, i cinesi continentali arrivati a Taiwan dopo il 1945, e i benshengren, nativi taiwanesi di etnia han. Una divisione e una tensione intraetnica che getta i semi del nazionalismo taiwanese e dello sviluppo di un’identità “altra” rispetto a quella cinese. Nel decennio successivo, Chiang è convinto di avere dalla sua parte Washington nei piani di riconquista. Dagli avamposti di Kinmen (arcipelago che si trova nel punto più vicino a soli due chilometri dalla metropoli di Xiamen) e Matsu (costellazione di isole a una ventina di chilometri dalle coste del Fujian), partivano spesso attacchi contro la costa continentale, peraltro col placet dell’amministrazione di Dwight Eisenhower. Nell’agosto 1954 Pechino risponde al bombardando Kinmen e Matsu e nel gennaio 1955 sbarca alle isole Dachen, molto più a nord, conquistando il controllo dell’arcipelago. È la Prima Crisi dello Stretto.
L’isolamento di Pechino dopo la rottura con l’Unione Sovietica offre però improvvisamente un’opportunità fondamentale a Washington per volgere a suo favore gli equilibri della guerra fredda. Dopo diverse votazioni in merito, la Repubblica Popolare conquista dal 25 ottobre 1971 il seggio delle Nazioni Unite dopo l’approvazione della risoluzione 2758. Pubblicamente, Chiang si rifiuta di prevedere possibili soluzioni alternative che avrebbero consentito alla Repubblica di Cina (Taiwan) di mantenere il seggio, come l’opzione “due Cina” o “una Cina, una Taiwan”. Eppure, diverse ricostruzioni sostengono che privatamente l’ex leader del Kuomintang si fosse mostrato disponibile ma non poteva mostrarlo per questioni di sostegno interno. Gli equilibri di forza diplomatici, improvvisamente, si ribaltano. Quando Chiang muore, nel 1975, è già chiaro che Taiwan resterà la casa della Repubblica di Cina e che il “continente” resterà sotto il controllo del Partito comunista.
Con il processo di democratizzazione avviato dal suo figlio ed erede Chiang Ching-kuo, completato dal primo presidente nativo taiwanese Lee Teng-hui (che vince le prime elezioni libere del 1996), a Taipei e dintorni si inizia a ridiscutere pubblicamente il proprio passato recente. La figura di Chiang, fin lì intoccabile e celebrata in onnipresenti statue a ogni piazza e di fronte a ogni scuola, inizia a essere contestata in maniera esplicita.
Le statue iniziano a essere rimosse dal 2000, cioè dall’inizio del mandato del primo presidente del Partito progressista democratico (DPP) Chen Shui-bian. Prima decine, poi centinaia di esemplari di statue di Chiang vengono ritirate e parcheggiate al parco di Cihu, a oltre un’ora di auto dalla capitale. Resta invece al suo posto quella immensa che domina il suo memoriale, nel centro di Taipei. Proprio questo è il luogo migliore per capire quanto sia complicato il rapporto di Taiwan con questa figura. Nello stesso edificio si trova un imponente memoriale con all’interno un museo coi suoi cimeli e una grande statua con tanto di guardia d’onore e alzabandiera. Ma anche un’esposizione sulla sua repressione dell’opposizione durante la legge marziale e quella che è passata alla storia come era del “terrore bianco”. E un’ampia piazza che è stata rinominata Liberty Square. Nel 2018, un gruppo di attivisti studenteschi ha gettato vernice sulla statua, due di loro sono stati arrestati e multati. Non più tardi di ottobre 2023 c’è stata una nuova protesta in cui si chiedeva l’abbattimento del memoriale. Altrove, invece, le statue e le immagini di Chiang vengono esposte ancora in modo diffuso. Per esempio a Kinmen e Matsu, due piccoli arcipelaghi a pochi chilometri dalle coste del Fujian cinese ma amministrate da Taipei. Qui siamo davvero nella manifestazione fisica della Repubblica di Cina, visto che si tratta di due territori dove i cittadini si percepiscono come “cinesi” e non “taiwanesi”. Non solo per una questione geografica, ma anche perché Kinmen e Matsu non hanno vissuto la colonizzazione giapponese e hanno dunque sempre fatto parte della Repubblica di Cina. Qui si possono ancora vedere affissi nei villaggi o scritte sulle pietre motti e slogan dell’era di Chiang per la “riconquista” dalla Cina continentale. Lo scorso novembre sono stati invece pubblicati per la prima volta i diari dell’ex leader, ottenuti dall’Academia Historica (l’archivio ufficiale per i documenti e i manufatti presidenziali) dopo una lunga battaglia legale con l’Hoover Institution dell’Università di Stanford. Leggerli potrebbe diventare “una forma di riconciliazione sociale”, ha detto il presidente dell’Academia Historica Chen Yi-shen.
Oggi, invece, di Chiang parla forse più il DPP (per ricordare l’origine del suo partito rivale), che il Kuomintang, che non rinnega il retaggio ma non lo sbandiera per non urtare la sensibilità degli elettori. Eppure, emerge la figura di quel Wayne – Chiang Wan-an – che sogna di diventare presidente e riportare la dinastia alla guida della Repubblica di Cina.
Di Lorenzo Lamperti
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.