Finisci i compiti e potrai giocare con il cellulare. Solo per un’ora. Solo nel weekend. A dirlo non è una tiger mum di Shanghai ma un “genitore” molto severo: il Partito Comunista Cinese. Il 30 agosto 2021 l’ente regolatore del settore videoludico in Cina, la National Press and Publication Administration (Nppa), ha annunciato nuove restrizioni nell’utilizzo dei videogiochi da parte dei minori. Gli under 18 potranno giocare per un massimo di tre ore a settimana, relegate a weekend e festivi, tra le 8 e le 9 di sera. Ai provider tecnologici è invece richiesto di contrastare eventuali violazioni, verificando l’identità (e l’età) degli utenti tramite registrazione e monitorando le ore di gioco dei minori.
Nel tentativo di combattere la “dipendenza da gioco” e proteggere i più giovani dall’utilizzo irresponsabile dei videogames, il governo sta stringendo su un’industria che in Cina frutta oltre 40 miliardi di dollari all’anno, e che oggi conta 750 milioni di giocatori. All work and no play per 110 milioni di piccoli gamers, che dovranno dire addio alle nottate passate davanti allo schermo. Una pratica che coinvolge il 62% degli adolescenti in Cina e che secondo le autorità sta “compromettendo gli studi e la vita normale” dei giovani cinesi e ha “reso infelici molti genitori”.
Considerare i videogiochi come dannosi per la salute mentale non è sicuramente un’esclusiva del contesto cinese, ma il governo della Repubblica Popolare è particolarmente attento alla loro penetrazione nella società, e da sempre si interessa a come possano influenzare le giovani menti. Secondo questo principio, dal 2000 al 2015 il Pcc ha proibito la vendita di console come Playstation e Xbox all’interno del paese, per timore che il loro utilizzo potesse “avere un impatto negativo sugli adolescenti”. Un divieto rivelatosi in definitiva controproducente, perché al joystick si è sostituito lo smartphone e l’industria del mobile gaming ha potuto fiorire pressoché indisturbata fino a qualche anno fa. A seguito del ban sulle console, negli ultimi vent’anni nella Rpc si è diffusa una pletora di giochi mobile e Pc, alcuni di produzione cinese, come Honor of Kings, altri di proprietà straniera, come Dota e War of Warcraft, la cui popolarità ha fatto la fortuna dei colossi tecnologici in Cina.
La partecipazione degli utenti cinesi al mondo dei videogiochi è così pervasiva che nelle scorse settimane i media statali li hanno definiti “oppio per lo spirito”, lamentando l’eccessiva dipendenza dei giovani e accusando le compagnie tecnologiche del loro immorale sfruttamento. 80 milioni di utenti attivi ogni giorno su Honor of Kings. 117 mila account cinesi su League of Legends. Sono alcuni dei numeri su cui può contare Tencent, la compagnia leader dell’online gaming in Cina (e nel mondo), e che dimostrano la potenza di fuoco del settore dei videogiochi.
A destare preoccupazione per gli effetti deleteri nei giovani sono le dinamiche di assuefazione talvolta insite nel modello di business alla base dei videogiochi online, che li rendono pericolosamente simili al gioco d’azzardo. È la trappola del “free to play, pay to win”, il meccanismo per cui un gioco online è gratuito e facilmente accessibile, ma richiede di spendere in add-on come skins (filtri personalizzati dei personaggi), loot box (vere e proprie slot machine che consentono di avanzare nel gioco) o di ottenere premi interni al gioco partecipando a missioni quotidiane. I giovani cinesi, in altre parole, non investono solo il loro tempo nei videogiochi, ma anche denaro.
Il parental control del Pcc non è dunque una questione esclusivamente educativa, ma rientra nel più complesso giro di vite contro i colossi del settore tecnologico in Cina. Sotto il banner della lotta alla dipendenza, il governo cinese rivendica il diritto di supervisione sui dati raccolti dalle piattaforme di gioco, spinge per una rettificazione morale delle compagnie tecnologiche e pone un freno alla loro crescita sregolata. Il tutto, per creare una “civiltà digitale” dove i contenuti culturali come i videogames sono controllati, e i consumi moderati.
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.