La Lega dei giovani comunisti è il vivaio da cui provengono funzionari e leader del Partito. Chiamati spregiativamente “bottegai” dai “principi rossi”, figli dei padri della patria, rappresentano una potente corrente, più sensibile verso le riforme sociali. Il presidente uscente Hu Jintao considera la Lega un suo feudo politico.
Quando si guarda all’interno del Partito comunista cinese si usano spesso termini ormai divenuti di uso comune: ad esempio tuanpai, ovvero ‘la fazione della Lega’, quel ramo politico interno che indica un certo tipo di funzionari, quelli usciti fuori dalla Lega dei giovani comunisti (Zhongguo gongchanzhuyi qingniantuan). Si tratta di una scuola politica che ha ormai assunto la forza di una corrente. I tuanpai sono solitamente considerati attenti alle politiche sociali, si dicono più vicini ai migranti e alle popolazioni rurali, sono definiti populisti per certi versi, liberali per altri, e sono contrapposti alla fazione taizidang, ovvero i ‘principini’, i figli dei padri della patria.
In un cable proveniente dall’ambasciata americana di Pechino, diffuso da WikiLeaks, un cinese spiegava all’ambasciatore americano le dinamiche interne al Partito. Si diceva che i principini appellassero i tuanpai, nella loro totalità, “bottegai”, per marcare la differenza fra i politici di professione, considerati anche piuttosto gretti, rispetto a chi la nobiltà politica rossa l’ha ereditata dal sangue dei genitori. La fonte cinese sosteneva di aver sentito un “principino” denunciare la pochezza rivoluzionaria di un “bottegaio”, affermando che «mentre mio padre stava sanguinando e morendo per la Cina, suo padre era lì a vendere lacci per le scarpe».
Recenti avvenimenti politici cinesi hanno, però, per certi versi sbiadito questa apparentemente invalicabile linea di demarcazione fra le due fazioni del Partito: Bo Xilai, ad esempio, appena espulso dal Partito e bandito dai pubblici uffici, era considerato di sinistra, un populista all’eccesso – quindi in area tuanpai – ma era allo stesso tempo figlio di un padre della patria, quindi un “principino”. Ciò significa che il Partito comunista vede nascere al suo interno alleanze e correnti dai contorni più sfumati.
Certo, resta innegabile il potere detenuto da chi arriva dalla Lega dei giovani comunisti. A ottobre si terrà il diciottesimo Congresso del Partito comunista: ai lavori del sedicesimo i tuanpai contavano 50 delegati, al successivo 86. A ottobre è probabile che la cifra possa aumentare ancora. E in ruoli chiave.
I tuanpai.
Ogni mattina, da anni, pare che dopo aver consumato la propria colazione, quasi impercettibilmente si sposti tra le stanze, fino a giungere alla sua. Da sempre, sulla sua scrivania, lo stesso giornale: Il Quotidiano del Popolo, il giornale del Partito. Hu Jintao è l’uomo che, rendendosi invisibile, ha rafforzato la centralità del Moloch. Il capo della Cina che si faticherà di più ad etichettare da tempo è silente, mentre osserva i movimenti che preludono alla sua pacifica successione.
Li Keqiang è, invece, uno che potremmo considerare ballerino di seconda fila. Fa parte di quella che viene chiamata la “classe 1982”, anno in cui 400mila cinesi (su oltre 11 milioni di candidati) riuscirono ad accedere alle università più prestigiose, dopo che nel 1977 era stato ripristinato il concorso d’ammissione (prima potevano solo i “proletari” riconosciuti). Figlio di un ufficiale di basso livello (nato nella povera regione dell’Anhui nel 1955) era stato mandato in campagna a rieducarsi durante la Rivoluzione culturale.
Giunto a Pechino, si distinse alla prestigiosa Beida: fu anche eletto come rappresentante alle elezioni universitarie. Se lo ricordano personaggi non certo graditi all’establishment di partito: ad esempio Wang Juntao, cinque anni di carcere per i fatti di Tien’anmen, poi esiliato negli Usa. Era amico suo e lo sottolineò anche attraverso articoli di giornale, una volta giunto in America. O Yuan Zhiming, scrittore, tra i più noti in quegli anni di contestazione. E Li Keqiang è il futuro premier della Cina.
Hu Jintao e Li Keqiang hanno una cosa in comune: sono tuanpai. Li appartiene al vivaio del presidente, a quella riserva di giovani pronti a prendere in mano le redini del Paese. E che la Lega dei giovani comunisti abbia ricevuto un impulso importante dalla presidenza di Hu lo testimonia Chen Huasheng, ricercatore della National Policy Research Foundation che afferma al quotidiano Epoch Times – fortemente critico nei confronti della Cina e spesso al centro di rumors di ardua verifica giornalistica, ma non in questo caso: «Attualmente, il vicepremier e consigliere di Stato Li Keqiang, il segretario del Partito nella provincia del Guangdong, Wang Yang, il capo dell’Ufficio organizzativo Li Yuanchao e il capo dell’Ufficio propaganda Liu Yunshan, sono considerati fra i membri principali della fazione di Hu Jintao all’interno del Partito. Hanno tutti fatto parte della Lega della gioventù comunista».
E tutti questi nomi concorrono a un posto all’interno della Commissione permanente del Politburo, il cuore pulsante del potere cinese.
In Occidente siamo abituati a cicli politici che vanno dalla nomina fino al termine del mandato. In Cina non funziona così: il potere esercitato è mutevole, ubiquo e rizomatico, e infinite sono le vie attraverso le quali continua ad esercitarsi. Basti pensare a Jiang Zemin, le cui condizioni di salute fanno traballare ancora oggi sulla sedia tanti politici cinesi.
L’impero di Hu non tramonterà a breve, ma neanche durerà in eterno: dopo la successione egli avrà – forse – ancora qualche anno come capo della Commissione militare, poi scomparirà davvero, a meno che, in segno di qualche riconoscimento trasversale, la sua spolverata alla confuciana “società armoniosa”, non venga inserita tra i pilastri del pensiero politico di partito. D’altronde una delle sue attività più intense è stato proprio quella esercitata all’interno della Lega dei giovani comunisti, il suo feudo.
È stato proprio Hu Jintao a celebrare i novant’anni di vita della Lega. Nata nel 1920 ha celebrato il suo primo congresso nel 1922, a Canton. Nei suoi primi anni di vita la Lega rivestiva la stessa importanza del Partito. Era un viatico e allo stesso tempo un’importante prova per tutti i funzionari. Era compito della Lega curare lo spirito ideologico dei giovani, un impegno fondamentale in epoca maoista e non solo. Da qui sono uscite figure leggendarie, come Lei Feng, l’indomito Stakanov cinese. Nel 1956 arriva l’ufficializzazione della Lega quale serbatoio privilegiato, in appoggio al Partito comunista cinese.
È un’autentica investitura: andate e diffondete il comunismo tra i giovani! Nella Lega però girano le idee, e ben presto c’è chi sente puzza di revisionismo. Quando arriva la bordata sociale portata dalla Guardie Rosse e la furia della Rivoluzione culturale, la Lega viene dismessa, posta in secondo piano. Ma alla fine della Rivoluzione culturale, in coincidenza con la politica di apertura promossa da Deng Xiaoping, ecco nascere la prima cordata della Lega, capitanata da Hu Yaobang: era nata la fazione dei tuanpai, nel solco di un pensiero ancorato alle radici, ma attento ai cambiamenti sociali, almeno idealmente. Hu Yaobang, già segretario del Partito, venne fatto fuori dal suo (fino ad allora) alleato Deng nel 1987. La sua morte diede l’avvio alle proteste che porteranno al massacro di Tien’anmen.
Dopo Yaobang, ecco un altro Hu. Nato nel 1942, Hu Jintao è stato il primo leader cinese che ha iniziato la carriera politica dopo l’avvento del Partito comunista nel 1949, nonché il più giovane in assoluto (a 39 anni) ad entrare a fare parte del Comitato centrale del Politburo, allora composto da soli sette membri.
Passerà alla storia come il “protetto” di Deng Xiaoping, che decise la sua ascesa con ben dieci anni di anticipo, dopo che il giovane Hu era stato notato per le sue attività nel Gansu da Ping Song, anziano rivoluzionario con tante ferite condivise con il vecchio Deng. Hu entrò nel Partito nel 1964, vide il padre condannato a morire di Rivoluzione culturale (accusato di essere un capitalista, un contrappasso ormai comune nelle nuove generazioni di leader cinesi), governò il Tibet con mano ferma, proclamando la legge marziale e stroncando una rivolta. Pare abbia anche contribuito e non poco alla fine misteriosa dell’allora Panchem Lama. Era il 1989, non una data come le altre. Stabilendo la legge marziale in Tibet, Hu Jintao dimostrava esplicitamente la sua gratitudine al “compagno” Deng, impegnato a combattere battaglie interne al Partito ed esterne (gli studenti) al fine di assicurare al Paese – e a Hu – un regno prospero.
«La storia ha dimostrato che i giovani sono degni di fiducia elevata e sono molto promettenti», ha sostenuto Hu celebrando i novant’anni del suo attuale feudo politico. «La fondazione della Lega dei giovani comunisti è stata una decisione presa dal Comitato centrale del Partito comunista per incoraggiare le persone più giovani a prendere parte alla rivoluzione della Cina, e i giovani hanno mostrato consapevolezza del loro ruolo nello sviluppo sociale e nel progresso del Paese. Il Partito – ha proseguito Hu – attribuisce grande importanza ai giovani, che sono la speranza e il futuro della nazione, così come un impulso per il lavoro del Partito e del popolo».
Possibilmente facendo il pieno di nomine al prossimo Congresso, così che la politica della quinta generazione di leader in Cina possa essere saldamente nelle mani dei tuanpai.
[Scritto per East; fotocredits: cristyli.com]