Storia della fotografia in Cina. Le opere di artisti cinesi e occidentali (Novalogos, 2011) offre numerosi spunti di riflessione sulle modalità espressive scelte da fotografi cinesi e occidentali in Cina dal 1839 al 1979. Gli autori presentano il loro lavoro ai lettori di China Files.
Questo libro è come la punta di un iceberg che emerge dall’acqua. Rende cioè visibile una piccola parte dell’enorme resto ancora sommerso, non sempre percepibile ma tutto da scoprire.
È un’indagine storica su come l’immagine fotografica si sia affermata e sia stata divulgata in Cina fino al 1979 e con la quale si rende visibile la complessità insita nelle scelte espressive, talora sottilmente impenetrabili, ma che nascondono una vastità di contributi, apporti e confronti, in parte ancora da esplorare.
L’apparire della fotografia in Cina, a partire dalle teorie sulla sua invenzione che vanno almeno in parte riesaminate, come testimonia il caso di Zou Boqi, pone una serie di interrogativi che sono attualmente oggetto di studio approfondito e di continua revisione.
L’insieme di immagini è notevole perché dalla guerra dell’oppio del 1839 – anno in cui per altro François Arago presenta all’Accademia delle Scienze di Parigi una relazione con cui ufficializza l’invenzione della fotografia – si è assistito ad una forte penetrazione occidentale che si è confrontata, anche visivamente, con la realtà cinese.
Si è contribuito così all’affermazione di un comune mezzo espressivo che è nato anche dai risultati ottenuti sia nel campo dell’ottica, con lo sviluppo della camera oscura, sia in quello della chimica, con lo studio delle sostanze fotosensibili.
E in Cina le vicende storiche hanno spinto inevitabilmente a un confronto costante, talora complice, talora conflittuale, tra culture, ognuna delle quali però è stata portatrice di una peculiare espressione, ovvero di una proposta autonoma su una tematica distinta.
È così che lo scenario storico e il contesto culturale del periodo hanno fatto da premessa ad una doppia indagine critica: da un lato come la fotografia cinese, all’interno della propria civiltà, portatrice di una tradizione radicata e antichissima, si sia dovuta confrontare con la fotografia occidentale che ha, per altro, contributo attivamente a divulgarne le tecniche, i temi e quindi il ruolo all’interno del sistema sociale; dall’altro come la fotografia occidentale si sia messa in relazione con quella cinese, portando con sé un’analoga tradizione, generatrice di una propria visione del mondo, che ha guardato con il nuovo occhio della fotografia ad un universo lontano e pure vicino, in una sintesi tutta da scoprire.
Per affrontare una tale complessità di contenuti è stato indispensabile adottare un solido approccio metodologico che tenesse conto della vastità del campo d’indagine e fosse da traino per i tre contributi che si articolano nelle tre sezioni di cui il libro è costituito, uniti parallelamente da una visione comune e da un confronto costante.
Le ricerche sino ad ora condotte sulla fotografia cinese hanno posto l’attenzione quasi esclusivamente sulle sue origini, oppure sull’utilizzo di questa tecnica per reportages di scene realistiche proposti come esempi di documentazione sociale, almeno fino agli anni ’70 del XX secolo.
Tale interpretazione si è basata sulle premesse estetiche promulgate dal sistema ideologico del periodo maoista, che ha in effetti considerato la fotografia un mezzo propagandistico di legittimazione del proprio potere.
Partendo dalle problematiche relative allo studio dell’ottica che coinvolge sin dall’antichità, in una stimolante e reciproca contaminazione, l’Oriente e l’Occidente, Marco Meccarelli ha affrontato l’etimologia del termine “fotografia” in Cina, che tiene conto di una scrittura cosiddetta ideografica, priva cioè di un codice alfabetico ma connaturata a una dinamica mentale che comunica per immagini.
L’autore ha tenuto sempre in considerazione la visione del mondo cinese, frutto di una millenaria cultura e l’originalità della sua resa attraverso l’immagine, prima pittorica e poi fotografica. Il vasto dibattito culturale sorto nel contesto sociale della Cina del XIX secolo, quello in cui si sono mossi i primi fotografi, ha permesso di valutare anche quegli elementi che, sin dagli albori, caratterizzano l’indagine cinese, e che permangono nel tempo, nonostante le difficoltà per le successive ingerenze politiche: trattasi di una costante sperimentazione, prevalentemente di carattere amatoriale, che pur essendo sotterranea a quella ufficiale, riuscirà persino a contaminarla.
La fotografia cinese, infatti, come tutte le altre manifestazioni artistiche, è stata fortemente condizionata dagli eventi storici ma gli autori di ogni epoca hanno consolidato anche l’adesione ad una specifica identità culturale, legittimata da quei valori che la tradizione trasmette nel tempo: lo rivela il contenuto visivo delle immagini, che si conferma tale anche quando risulta contaminato dalle problematiche scaturite dalla contingenza e dal confronto interculturale.
L’esempio del “padre della fotografia cinese”, Long Chin-san è lampante. Ma anche le indagini svolte sul linguaggio fotografico, tra teoria e pratica, da Chen Wanli e Liu Bannon, lo confermano. E ancora, la fotografia etnografica degli anni ’30 e quella di guerra presentano peculiari modalità espressive che si scontrano o si confrontano col genere di propaganda, laddove si distinguono numerose personalità che hanno messo la propria creatività artistica al servizio della causa politica, come Wu Yinxian e la coppia di sposi Xu Xiaobing e Hou Bo, i quali hanno sostenuto con le loro immagini il culto della personalità, sorto intorno alla figura di Mao Zedong.
È stata per altro affrontata una riflessione critica su un genere che, pur mantenendo le prerogative del fotogiornalismo, ha proposto un’enfasi sempre più rivolta a cogliere gli attimi significativi ed eroici della storia, fino a determinare una vera e propria esaltazione del “simbolo ideologico”.
Meccarelli, nel rilevare l’esistenza di un’“altra fotografia”, come lui stesso l’ha definita, ha tenuto conto anche del valore artistico “sovversivo” e “sotterraneo” che la caratterizza: essa si distingue infatti per il suo carattere dirompente che tiene fede ai canoni prestabiliti dalla tradizione classica cinese, talora in voluta controtendenza alle istanze promulgate dalle autorità.
È stato intenzionalmente scelto come limite cronologico il 1979, anno di rottura a livello sociale, che conclude una fase, ma funge anche da premessa per ulteriori analisi di problematiche del fenomeno fotografico, non riconducibili a questa prima indagine. È a partire infatti dal 1979 che l’apertura a un costante dialogo tra culture, talora anche conflittuale, in un contesto mondializzato, si è confrontata con lo sviluppo tecnologico-digitale, dovuto anche all’affermarsi di software per computer.
L’intervento di Yee Wah Foo, erede di uno dei più importanti fotografi cinesi degli anni ’30, ovvero Fu Bingchang, è stato prezioso, anche perché ha permesso di offrire un contatto diretto ed esclusivo con una visione cinese dell’Occidente.
Nel riportare annotazioni dei diari inediti del nonno, l’autrice ha potuto indagare su un contributo fotografico che, oltre a costituire un’alternativa al culto della personalità dominante, ha affrontato anche le problematiche relative all’esperienze avute dal fotografo in Cina, a confronto con quelle in Occidente, in qualità di ambasciatore in Unione Sovietica.
Nel continuare la sua indagine fotografica anche al di fuori della Cina ed entrando in contatto diretto con la cultura europea, nella fattispecie russa prima e francese poi, Foo Bingchang si è posto in relazione con realtà diverse dalla sua terra d’origine e le ha immortalate nelle immagini fotografiche e nelle annotazioni dei suoi diari, mantenendo viva la sua aristocratica sensibilità e offrendo ulteriori spunti di approfondimento sulla qualità del codice espressivo adottato.
Quella di Yee Wah Foo è una fonte di prima mano sul rapporto tra cultura e ricerca orientale (e relativa visione del mondo) e le corrispettive occidentali, condotto in un periodo così complesso e interessante come quello dagli anni ’30 in poi ed attraverso il contatto con importanti esponenti della ricerca occidentale.
Il suo contributo assume anche il ruolo di ponte ideale verso la terza sezione del libro, affrontata da Antonella Flamminii, che ha tenuto conto della visione del mondo occidentale generata dalla relativa millenaria cultura e della sua riflessione intorno al ruolo dell’immagine.
L’autrice ha così potuto estendere la sua indagine al rapporto che la fotografia occidentale ha instaurato con la realtà cinese, affrontando lo sviluppo della tecnica, della ricerca espressiva fotografica e la riflessione relativa ai risultati ottenuti, nell’interazione, anche in questo caso, con la società e la storia del XIX e del XX secolo, che ha visto l’occhio occidentale volgersi ad Oriente con differenziati fini e particolari risultati.
Un’accurata selezione ha permesso di indicare alcuni autori occidentali, entrati in contatto diretto con la Cina: ognuno di loro ha portato con sé una propria eredità, frutto della sensibilità del singolo individuo ma anche della sua formazione e ancora, del suo ruolo all’interno del contesto sociale e culturale di appartenenza.
Ecco perché Felice Beato ha permesso un dettagliato approfondimento sulla funzione del primo fotogiornalismo di guerra, mentre William Saunders e Milton Miller hanno permesso di esplorare le modalità con cui la fotografia documentaria si è manifestata in Cina, anche a confronto con John Thompson che ha proposto delle varianti alle possibilità di ricerca nel campo della fotografia documentaria-sociale; Reginald Foller Codrington Hedgeland ha elaborato poi una narrazione condotta in termini fotografici, in un arco di tempo considerevole, che ha mostrato alcune caratteristiche delle relazioni sociali tra comunità inglese e quelle autoctone in Cina; William Armstrong ha offerto la sua visione di un mondo di cui si sentiva profondamente partecipe; padre Giovanni Bricco e padre Leone Nani, sono stati “l’occhio dei missionari dietro l’obbiettivo” mentre Warren Swire è stato “l’occhio del commercio e dell’industria”.
Si è avuta inoltre attenzione verso il contributo femminile negli anni ’30, con Ellen Thorbecke e il fotogiornalismo nelle riviste internazionali e Hedda Hammer Morrison e la sua originale proposta di guide turistiche esotiche illustrate. L’Italia non manca all’appello e la Flamminii propone anche una dovuta panoramica sul particolare contributo di Fosco Maraini alla fotografia documentaria. E il fotogiornalismo di guerra viene affrontato attraverso la visione che della Cina e della sua cultura ha avuto Cartier-Bresson, a confronto col fotogiornalismo di pace promosso da uno dei più incisivi fotoreporter italiani, Caio Garrubba, in Cina nel 1959.
L’autrice conclude con una riflessione sui risultati dell’interazione tra i due mondi, quello occidentale e quello orientale e sul sorgere di un nuovo orizzonte, sottolineando la necessità di un’analisi puntuale dell’immagine per comprenderne le dinamiche interne e di relazione con l’esterno.
Potete leggerne alcune pagine qui.
*Marco Meccarelli, storico dell’arte orientale, è cultore della materia presso la Sapienza, Università di Roma, socio fondatore di VersOriente e collaboratore della rivista Civiltà
**Antonella Flamminii, storica dell’arte occidentale, è specializzata in Archeologia Orientale presso la Sapienza Università di Roma
***Yee Wah Foo, senior lecturer in Relazioni Internazionali, Università di Lincoln (UK), è membro onorario del Museo di Nanchino (Cina)