Un sondaggio smentito dalle migliaia di commenti che What’s on Weibo, un sito internet dedicato ai temi caldi del social network, aveva mostrato sull’argomento. Dai commenti dei cittadini cinesi, infatti, emergeva invece una forte diffidenza nei confronti dei rifugiati nonché dubbi sul campione utilizzato da Amnesty per la propria ricerca. In Cina, come in tanti altri Paesi asiatici, i media informano sulla crisi dei migranti in Europa sottolineando soprattutto gli aspetti più drammatici. La percezione della popolazione cinese è, in generale, quella di una questione gravida di problematiche. L’associazione mentale dei cinesi sul tema sembra infatti chiara: accogliere rifugiati significa caos, confusione, degrado, perdita dei diritti delle popolazioni locali.
Si tratta di un tema molto importante in Cina, un Paese in cui, nel corso degli anni, non sono mancati episodi di razzismo nei confronti degli immigrati, specie quelli di origine africana, e dove in generale la politica dei visti nei confronti degli stranieri si è fatta via via più restrittiva, fino alla riforma del 2013. La Cina è interessata ad attrarre membri della comunità business internazionale o talenti dal mondo occidentale ma ormai l’andazzo è quello di far tornare in patria i cervelli in fuga e diventare sempre più chiusa rispetto alla presenza degli stranieri sul proprio territorio — confermata anche dalla difficoltà di molte aziende straniere ad operare in Cina: nonostante le promesse di Xi Jinping, il mercato cinese rimane ostico per gli stranieri -.
Per quanto riguarda le derive razziste, per le quali è sbagliato generalizzare ma che non possono essere certo negate alcuni episodi sono diventati addirittura celebri anche nel resto del mondo. La rappresentazione degli africani durante la trasmissione della Cctv di fine anno, con picchi di centinaia di milioni di spettatori, o una pubblicità nella quale una ragazza buttava un africano in lavatrice, dalla quale poi emergeva un giovane cinese, hanno scatenato dibattito ma i commenti sui social network sembravano confermare uno strisciante razzismo e diffidenza dei cinesi nei confronti del “diverso da sé”.
Quanto ai dati: secondo le stime e i numeri a disposizione, in Cina avrebbero trovato asilo 300mila rifugiati, la maggioranza dei quali proviene dal Vietnam, mentre al momento ci sarebbero meno di 30 siriani. Nel 2016 la rivista Foreign Policy esaminò la questione dei rifugiati in Cina: “Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) a Pechino, alla fine di agosto 2015, c’erano nove rifugiati e 26 richiedenti asilo dalla Siria in Cina. Erano tra le 795 persone registrate dalle Nazioni Unite provenienti dalla Somalia, dalla Nigeria, dall’Iraq e dalla Liberia che vivevano in Cina temporaneamente in attesa di essere trasferite. Il gigante dell’Asia orientale affronta complesse sfide politiche, demografiche, religiose ed economiche che gli hanno impedito di prendere in considerazione l’idea di consentire ai migranti di entrare nei propri confini. Anche così, se la Cina vuole diventare una potenza globale responsabile, il Paese deve rivalutare l’ideologia che gli ha impedito di assumere un ruolo attivo nel migliorare la crisi globale”.
Pechino sembra non tenere conto del dramma dei rifugiati per una considerazione molto netta: si ritiene che la crisi dei migranti sia la conseguenza delle politiche predatorie occidentali in Africa e Medio oriente, come tale è il mondo occidentale a doversi fare carico di questo pesante fardello e rimediare, dunque, a qualcosa causato dalla propria brama di potere e sfruttamento di altri Paesi e popolazioni.
In un articolo dell’ottobre 2015 del Quotidiano del Popolo, Wu Sike, ex ambasciatore cinese in Egitto e Arabia Saudita ed ex inviato speciale in Medio Oriente, sosteneva che l’agenda per la “democratizzazione” del Medio Oriente degli Stati Uniti e dei suoi alleati fosse alla radice della crisi dei rifugiati migranti.
In un articolo del 15 febbraio — come riporta ancora Foreign Policy — su un altro magazine vicino al partito comunista, Zhang Weiwei, direttore del Centro per la ricerca sul modello di sviluppo cinese all’Università Fudan di Shanghai, ha sostenuto che “la crisi dei rifugiati europei ha un prezzo” che i Paesi occidentali devono pagare per la loro “arroganza”.
A questo proposito nell’articolo viene citato il caso, purtroppo celebre, del bambino siriano morto su una spiaggia, Aylan Kurdi. I netizen cinesi allora condivisero il dolore. Ma allo stesso tempo incolparono gli Stati Uniti per il caos siriano e quindi per la morte del bambino.
di Simone Piranni
[Pubblicato su Eastwest]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.