In India il suicidio del giovane «dalit» Rohith Vemula diventa un caso nazionale, aggiungendosi alle tragedie causate dal clima di intolleranza che negli ultimi due anni di governo Modi sembra essersi acuito. Episodi sempre inseriti nell’insieme vacuo degli «spiacevoli incidenti».«Chiedo a Vostra Altezza di provvedere quanto prima all’istituzione di una struttura apposita per l’eutanasia, dedicata agli studenti come me. E auguro a Voi e al campus intero di riposare in pace per sempre». Si conclude così una lettera indirizzata da Rohith Vemula, 26 anni, al secondo anno di dottorato in scienze presso la Hyderabad Central University (Hcu, nello stato del Telangana), al «vice chancellor» — il «facente veci di rettore» nel sistema accademico indiano.
Ordinaria dialettica sprezzante di un giovane studente dalit e «di sinistra», diremmo erroneamente noi, col rischio di appiattire l’attivismo politico di una generazione di cosiddetti «fuoricasta» contro le sistematiche e secolari angherie perpetrate dalle «caste alte» ai danni degli ultimi tra gli ultimi. Un gruppo variegato che nell’India moderna comprende una costellazione di discriminati in costante espansione: dalit, adivasi (i tribali), musulmani, shudra (i «servitori», secondo il sistema castale hindu), indiani del nordest, donne, omosessuali, tutti accomunati dalla lotta per il primato della «giustizia sociale» sulla gerarchia umana imposta dall’ultrainduismo.
La lettera e la corda
Domenica 17 gennaio, il corpo senza vita di Rohith Vemula è stato trovato all’interno del campus di Hcu, impiccato, assieme a una lettera — diffusa poi sui social network — diventata testamento dei sogni di giustizia di uno studente dalit che voleva scrivere di scienze, «come Carl Sagan», e che invece si è tolto la vita schiacciato dal peso di un mondo dove «il valore di un uomo viene ridotto alla propria immediata identità. A un voto. A un numero. A una cosa». Vemula aveva 26 anni ed era un dalit.
Vemula, con i compagni della Ambedkar Students Association (Asa), interpretava il lusso di un’istruzione superiore — garantito dal sistema delle «reservations», l’«affirmative action» indiana — come il diritto-dovere di superare l’esclusività posturale auspicata per gli studenti dalla società indiana: alla testa china sui libri, Vemula aggiungeva la schiena dritta dell’attivismo politico, battendosi per la sensibilizzazione e la denuncia delle tante cose che dentro e fuori dal recinto universitario non andavano, e continuano a non andare.
Nel 2015, seguendo la cronaca quotidiana dell’«intolleranza» dell’estremismo hindu, l’associazione di studenti intitolata al politico e giurista simbolo della lotta per i diritti dalit — B. R. Ambedkar — aveva organizzato una serie di iniziative «extra curricolari»: la proiezione del documentario «Muzaffarnagar Baqi Hai», sugli scontri intra-comunitari in Uttar Pradesh del 2013 sobillati da esponenti dell’ultrainduismo; una veglia funebre per Yakub Menon, musulmano, impiccato lo scorso luglio dalla «giustizia» indiana per il coinvolgimento negli attentati bombaroli di Mumbai del 1993 (nonostante Memon si fosse costituito diventando collaboratore di giustizia); un «Beef Festival» in solidarietà al linciaggio di Mohammad Akhlaq, musulmano, accusato di aver consumato carne di manzo (poi si scoprì, di montone) da una folla inferocita di fedeli hindu.
L’aggressione e le indagini
Un attivismo, quello di Asa, opposto a quello della Akhil Bharatiya Vidyarthi Parishad (Abvp), la sigla studentesca dei giovani del Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito della destra hindu al governo dal 2013 con Narendra Modi, che aveva bloccato con la forza la proiezione del documentario sui fatti di Muzaffarnagar. Lo scontro, sfociato in una scazzottata, dà inizio a un effetto domino di minacce e provvedimenti contro Vemula e altri quattro studenti, tutti dalit.
Il leader locale di Abvp, Susheel Kumar, spronato dalla madre denuncia i cinque alla polizia di Hyderabad per «aggressione». La polizia apre il fascicolo e le indagini, parallelamente a quelle interne della Hcu, con un panel di professori — di cui nessuno dalit — chiamato a valutare le eventuali contromisure da prendersi. L’allora vice chancellor Sharma, prima dell’estate, derubrica il tutto come regolare amministrazione della focosa politica studentesca, facendo cadere le accuse. La nomina del nuovo vice chancellor, Rao, ribalta le carte in tavola.
Lo zelo di Abvp nel lamentare le percosse coinvolge l’Union minister Bandaru Dattatreya, Bjp, che con non meno zelo indirizza una serie di lettere all’amministrazione universitaria e al ministero federale delle risorse umane, a New Delhi, reclamando punizioni esemplari per i cinque «castisti, estremisti, anti-nazionali». Le lettere non rimangono inevase e dal ministero presieduto da Smriti Irani — Bjp, classe 1976, ex modella e starlette televisiva accusata di aver millantato una laurea in belle arti per corrispondenza, a quanto pare mai ottenuta — arrivano sul tavolo del vc Rao almeno altre quattro lettere che incoraggiano la sospensione di Vemula e compagni.
La sospensione
Sospensione che arriva: i cinque attivisti sono espulsi dal dormitorio, viene loro proibito l’accesso a tutte le strutture universitarie diverse dalle aule delle lezioni da seguire e dalla biblioteca e, a Vemula, viene intimato di saldare il conto dell’alloggio universitario: 9,482 rupie (127 euro). Vemula, incidentalmente, per «complicazioni burocratiche», non riceveva la propria borsa di studio — erogata dall’amministrazione universitaria — dal luglio del 2015. Secondo i calcoli dello stesso Vemula, l’università gli doveva 175mila rupie (2.360 euro). Da gennaio i cinque studenti hanno dormito per 12 giorni in tende approntate fuori i cancelli dell’università, in attesa che l’appello inoltrato alle autorità universitarie fosse accolto dall’amministrazione.
Le tende fuori dall’università
Per tutti questi mesi, hanno raccontato gli amici di Vemula ai media indiani, lo studente aveva chiesto prestiti per le spese minime di sostentamento — «Devo 40mila rupie (540 euro, ndr) a Ramji — si legge nella lettera di Vemula — lui non me le ha mai chieste, ma vi prego di ridargliele» — e aveva continuato a mandare soldi a Guntur, il villaggio dove ancora vive la madre. Prima della borsa di studio di Vemula — 25mila rupie (340 euro) al mese – il lavoro a macchina di Radhika Vemula rappresentava l’unica fonte di reddito della famiglia: 150 rupie (due euro) al giorno.
A New Delhi, i collettivi studenteschi «di sinistra» hanno circondato il ministero presieduto da Irani, urlando slogan contro il governo «assassino» del Bjp. Le forze dell’ordine hanno risposto con cariche a suon di «lathi» — il bastone di legno d’ordinanza – mandandone una decina all’ospedale. Al campus di Hcu i compagni di Vemula – dopo aver provato a bloccare le autorità mandate a recuperare il corpo dello studente – hanno organizzato un sit-in permanente, chiedendo che si faccia luce sulle responsabilità del suicidio di Rohith e accusando il governo del Bjp di ingerenza negli affari universitari e di atteggiamenti discriminatori nei confronti della minoranza dalit.
Il suicidio di Rohith, oggi, è stato promosso a «caso nazionale», andando ad aggiungersi alle decine di tragedie causate dal clima di intolleranza che negli ultimi due anni di reggenza del Bjp sembra essersi acuito. Episodi sempre inseriti nell’insieme vacuo degli «spiacevoli incidenti» o, parafrasando l’unica dichiarazione arrivata da Modi a ben una settimana di distanza , motivo di «profonda tristezza. Politica a parte, Madre India ha perso un figlio».
Messa alla graticola dalla stampa nazionale, la ministra Irani ha denunciato la «rappresentazione fuorviante» del caso Vemula data dagli organi d’informazione, smarcandosi da ogni responsabilità. Le ha fatto eco l’Union minister del Bjp Dattatreya, facendosi scudo con «l’assenza di nomi» nella lettera/testamento lasciata da Vemula. Una delicatezza stilistica usata ora come stratagemma assolutorio, quando la polizia di Hyderabad ha già aperto un fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati Dattatreya e altri tre funzionari universitari. L’accusa è istigazione al suicidio.
In attesa dell’eventuale giustizia dei tribunali indiani, rimane la certezza che nell’India di oggi il tema delle discriminazioni subìte dalle minoranze rimane un tabù, ovattato dalle voci delle classi dominanti. Le voci degli «altri», cacofoniche per la sinfonia del nuovo miracolo indiano di stampo modiano, si odono a fatica quando pronunciate dalle bocche dei vivi. E ancora una volta, e chissà quante ancora, sono riuscite ad arrivarci solo attraverso le urla dei morti.
[Pubblicato su il manifesto; foto credit: hindustantimes.com]