Nell’agosto dell’anno scorso, a pochi giorni dal rientro nelle scuole, le autorità della regione autonoma cinese della Mongolia interna annunciavano il proprio piano di riforma dell’insegnamento scolastico. La riforma si articola su tre anni e interessa le scuole della minoranza titolare della regione, dove l’insegnamento viene effettuato in lingua mongola. Essa prevede che tra il 2020 e il 2022 le scuole elementari e medie debbano cambiare la lingua in cui vengono insegnate lingua e letteratura, legge e moralità (educazione civica), e storia, passando dal mongolo al mandarino. Le altre materie continueranno a essere insegnate in mongolo.
Per diversi motivi, il cambiamento non è di poco conto. In primis perché prendendo di mira l’utilizzo della lingua mongola e il suo ruolo all’interno di alcuni spazi istituzionali garantiti dalla legge cinese sulle minoranze, la riforma intacca uno degli ultimi pilastri dell’identità culturale mongola in Cina. Un secolo di intensi capovolgimenti socio-economici e demografici hanno portato i mongoli a essere una minoranza all’interno della stessa Mongolia Interna (dove rappresentano circa il 17% della popolazione), mentre l’inurbamento ha cancellato gran parte dello stile di vita tradizionale. Perciò la lingua resta il principale vettore attraverso cui la minoranza mongola riesce a esprimere su base quotidiana la propria appartenenza culturale, alla quale oltretutto si lega anche l’utilizzo dell’originale alfabeto mongolo (ad oggi non più correntemente in uso neppure nella Mongolia indipendente).
Un altro aspetto sul quale la riforma potrebbe avere un impatto è la coscienza socio-politica della minoranza mongola. Già da tempo i curricula scolastici della Mongolia interna tendono velatamente a dare prevalenza a conoscenze cinesi piuttosto che propriamente mongole. In tal senso, sostituendo il mandarino come lingua veicolare per l’insegnamento di materie come letteratura, legge e moralità, e storia, gli studenti mongoli col tempo potrebbero perdere l’abilità di usare la propria lingua per articolare un discorso su questi temi di rilevanza politica e identitaria. Il rischio perciò è che la lingua mongola possa perdere il proprio ruolo aggregante per l’identità politica della minoranza, riducendosi così a quella che viene definita come una “kitchen language”.
I PRECEDENTI
I precedenti poi non sono rassicuranti. Riforme educative simili sono state introdotte nella regione autonoma uigura del Xinjiang nel 2017 e nella regione autonoma del Tibet nel 2018, e sono servite da introduzione a altre politiche repressive delle identità culturali, nonché a gravi abusi dei diritti umani, ai danni delle due minoranze. Sebbene i mongoli siano spesso stati considerati come una minoranza modello, il trattamento di uiguri e tibetani costituisce un elemento di forte preoccupazione per quanto riguarda la propensione dello Stato centrale a esercitare il proprio potere coercitivo nei confronti delle minoranze.
La minoranza mongola, infatti, non ha esitato a farsi sentire dopo che la riforma è stata annunciata. Nei primi giorni di settembre gruppi di persone hanno manifestato davanti agli istituti scolastici, mentre molti genitori hanno deciso di non mandare i propri figli a scuola e in alcuni casi sono stati gli studenti stessi a organizzare decidere di uscire in protesta dalle aule. Per esprimere la propria contrarietà, migliaia di persone hanno firmato petizioni in cui accusavano la riforma di violare i diritti garantiti alla minoranza etnica dalla legge e dalla costituzione della Repubblica Popolare Cinese, chiedendo semplicemente un ritorno allo status quo. Cristopher Atwood ha notato che l’ampiezza delle proteste potrebbe indicare che una parte dell’amministrazione locale simpatizzasse con le rivendicazioni e abbia perciò evitato di intervenire per bloccarle. Ciononostante, ben presto le autorità sono comunque entrate in azione su tre livelli: riportare conformità nella gerarchia dei funzionari locali, rassicurare la popolazione e usare il potere coercitivo.
In primis, la gerarchia del partito regionale si è schierata pubblicamente in favore della riforma mentre, nelle aree più interessate dalla protesta, ai quadri è stato chiesto espressamente di monitorare e riportare ai superiori qualsiasi comportamento “radicale” anche tra i colleghi: il monito per i funzionari ricalcitranti di rimettersi in linea è stato rafforzato dall’ispezione nella regione del ministro per la sicurezza pubblica Zhao Kezhi. Allo stesso tempo, le autorità hanno cercato di rassicurare la minoranza mongola che non sarebbero stati introdotti altri cambiamenti all’insegnamento, incoraggiando anche i funzionari locali a spiegare ai genitori le ragioni della nuova politica e soprattutto che essa non avrebbe leso la sostanza dei trattamenti scolastici preferenziali che sono garantiti per legge alle minoranze. Il terzo canale di intervento è stata la coercizione dei membri più attivi della comunità mongola. L’operato della polizia ha compreso sia tattiche intimidatorie (come minacce di ritorsioni nei confronti dei genitori e richieste firmate di non esprimere più la propria opposizione) che arresti e discriminazioni punitive, mentre sui social network la censura è stata mirata a evitare che il malcontento si potesse esprimere e organizzare. Entro la fine di settembre, le proteste erano cessate e la frequenza scolastica era ripresa.
UN’UNICA NAZIONE
La riforma scolastica della Mongolia Interna si inserisce in un più ampio cambio di rotta della Cina sul tema dei rapporti tra il centro a maggioranza han (l’etnia che compone il 90% della popolazione e a cui è associato il mandarino) e la periferia abitata dalle minoranze. Dalla creazione della Repubblica Popolare, l’impianto istituzionale cinese si è generalmente contraddistinto per l’attenzione verso i diritti collettivi delle minoranze, alle quali sono stati concessi regimi di auto-amministrazione speciali e alcuni trattamenti preferenziali per quanto riguarda alcune legislazioni statali. L’insegnamento scolastico nella propria lingua e i regolamenti agevolati per l’ammissione all’università sono due esempi di questa attenzione. Nell’ultimo decennio tuttavia parte dell’intellighenzia ha cominciato a ripensare cosa voglia dire essere “cinese”, riportando in auge il concetto di zhōnghuá mínzú 中华民族 (traducibile come “nazione cinese”) che era stato elaborato durante l’era repubblicana. In estrema sintesi, esso si rifà all’idea che la Cina non sia composta da un mosaico di diverse nazionalità, bensì che il popolo cinese sia esso stesso un’unica nazione con un’unica soggettività politica. Questa idea sarebbe alla base della svolta apportata da Xi Jinping alla politica delle minoranze. Negli ultimi anni Pechino ha espresso a più riprese il principio secondo cui l’identità culturale è alla base dell’unità nazionale e che una lingua condivisa è necessaria al rafforzamento della coscienza comune della nazione cinese. Un articolo pubblicato il 9 settembre scorso sul Quotidiano del Popolo riportava un discorso di Xi proprio di questo segno, a legittimare tacitamente la riforma della Mongolia Interna.
Come è stato notato da diversi studiosi, questo tipo di discorso giustifica però una spinta assimilazionista verso la cultura della maggioranza han, che ha assunto i suoi aspetti più duri nelle politiche imposte sulla minoranza uigura dello Xinjiang. Proprio in una conferenza di partito in questa regione tenutasi a fine settembre, Xi ha pronunciato un discorso di validazione del modello applicato nella regione uigura, aprendo così implicitamente la strada per disposizioni simili anche nei confronti di altre minoranze. Le ragioni che avrebbero spinto la dirigenza cinese a intraprendere quest’opera di “sinizzazione” linguistico-culturale delle minoranze sono state spiegate da due angolazioni: una ha a che fare con lo sviluppo economico e l’altra con la sicurezza nazionale.
Le autorità di Pechino hanno più volte dichiarato che la diffusione del mandarino come lingua franca nazionale è un prerequisito per poter permettere a tutti i cittadini della Repubblica Popolare di non perdere le occasioni offerte dalla crescita cinese. Ciò va letto soprattutto alla luce del fatto che mediamente le regioni autonome delle minoranze etniche hanno un PIL pro capite più basso di quello delle province più sviluppate e abitate dalla maggioranza han. Perciò la sinizzazione servirebbe a creare un’identità comune per permettere alle minoranze delle periferie (stereotipate come “arretrate”) di beneficiare dello sviluppo economico del centro.
Il secondo motivo per cui le minoranze etniche sono spinte verso l’assimilazione è la storica difficoltà di Pechino a mantenere la stabilità nelle proprie periferie nazionali. Descrivendo il modello di stabilizzazione dello Xinjiang come “del tutto corretto”, Xi ha enfatizzato l’importanza dell’educazione per la costruzione di una coscienza nazionale condivisa. A diverse riprese le autorità gli hanno fatto eco, evidenziando l’importanza della politica linguistica per rafforzare l’unità nazionale. Da questa angolazione, perciò, la sinizzazione può essere spiegata con l’intenzione di creare un’identità omogenea per scongiurare il pericolo che una minoranza etnica possa sviluppare una soggettività politica abbastanza forte da poter mettere a rischio la stabilità interna e la sicurezza nazionale, in particolare in un periodo di intenso confronto internazionale.
L’ECCEZIONALITA’ DELLA MONGOLIA INTERNA
Eppure queste due spiegazioni ufficiali difficilmente riescono a spiegare il caso della Mongolia Interna. In primis perché già prima della riforma solo poco più del 30% delle famiglie mongole mandava i propri figli alle scuole per la minoranza etnica mentre le restanti famiglie optavano per le normali scuole in mandarino, probabilmente considerando la spendibilità dell’educazione sul mercato del lavoro. In secundis perché la regione è spesso stata additata come un esempio generalmente positivo di integrazione tra maggioranza han e minoranza mongola, con pochi problemi provocati per la stabilità interna del paese.
Spiegare la politica scolastica cinese nella Mongolia Interna è dunque più difficile di quanto possa sembrare. Se le motivazioni non possono essere trovate nella realtà regionale mongola, allora forse esse vanno cercate altrove. Durante l’udienza della Commissione per gli Affari Legislativi svoltasi a Pechino il 20 gennaio, le autorità dello Stato centrale hanno infatti affermato l’incostituzionalità dei regolamenti locali che limitino l’utilizzo del mandarino nelle scuole etniche. Perciò, inquadrando la questione in termini di costituzionalità, le autorità hanno evidenziato che alla base della riforma scolastica non c’è una decisione di opportunità politica ma piuttosto di strutturazione delle istituzioni nazionali.
Dal momento che una delle linee guida degli 8 anni di governo di Xi Jinping sembra essere quella della “de-frammentazione” (sia essa della gestione del potere o delle strutture sociali del paese), si può ammettere che l’intento possa essere quello di far perdere significato alla radice etnica che fa della Mongolia Interna una regione diversa dalle altre province cinesi. Questa linea di pensiero si sposa con quella proposta da alcuni intellettuali cinesi nella cosiddetta “politica etnica di seconda generazione” e che sembra aver preso piede a Pechino. Essa prescrive in sostanza di depoliticizzare le etnie, rimuovendo distinzioni tra han e minoranze e costruendo una coscienza e un’identità nazionale condivisa e trasversale.
Certo, il cambio di rotta in Mongolia Interna non è così radicale come in altre zone periferiche del paese ma d’altro canto è comunque una decisione audace considerando il discreto successo ottenuto nella creazione di una società multietnica nella regione. Il caso mongolo forse è interessante proprio per questo, perché nonostante la sua apparente funzionalità le autorità hanno comunque ritenuto necessario riformarlo. Allora urge trovare una risposta: dove dobbiamo guardare per capire la politica etnica della Cina di Xi Jinping? E soprattutto, come individuare i punti di rottura oltre i quali le autorità decidono di cambiare le politiche sulle minoranze etniche?
di Guido Alberto Casanova*
*Ricercatore specializzato sui rapporti tra Stato e società civile in Cina e nei paesi dell’Asia orientale. Ha conseguito un master in Asian Politics alla School of Oriental and African Studies di Londra, dove si è laureato con una tesi sul ruolo della competizione tecnologica nel conflitto commerciale tra Cina e Stati Uniti.