“L’ultimo vero impiego operativo dello strumento militare cinese risale 1979. Ciò ha un impatto significativo sulla capacità dei vari servizi che compongono le forze armate di operare congiuntamente. Pechino non è ancora pronta a combattere”. Intervista
Da decenni l’esercito Popolare di Liberazione è impegnato da una significativa opera di modernizzazione e rinnovamento. Ciò riguarda non solo la progressiva sofisticazione delle dotazioni in possesso delle forze armate cinesi, ma anche aspetti di carattere dottrinario. Tuttavia, se l’obiettivo di Pechino è la costruzione di forze armate di classe mondiale, permangono comunque notevoli difficoltà. Tra queste vi sono l’ancora acerba capacità di coordinamento tra i diversi servizi e la mancanza di esperienza di combattimento. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Termine, docente di Relazioni internazionali presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) e ricercatore del Centro Studi Geopolitica.info. È autore di “Tigri con le ali. La politica di difesa post-maoista e l’arma nucleare” (Aracne Editrice, 2021).
Quali sono i maggiori punti forza e di criticità che caratterizzano le forze armate cinesi?
Quando si discute di forze Armate cinesi, un aspetto fondamentale è l’analisi del consistente percorso di modernizzazione che ha interessato, nei passati decenni, lo strumento militare di Pechino. In realtà, si tratta di qualcosa che – come dimostra Simone Dossi nel suo “Rotte Cinesi” (UBE, 2014) – va avanti almeno dagli inizi degli anni ’80. Addirittura, già se ne fa menzione alla fine degli anni ’70, soprattutto a seguito della performance decisamente scadente dell’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) nel conflitto combattuto nel 1979 contro il Vietnam. Un ulteriore punto di svolta, forse il più decisivo in assoluto, si ha poi nel 1991: osservando le operazioni americane nel corso della prima guerra del Golfo, i cinesi prendono definitivamente coscienza della schiacciante superiorità degli Stati Uniti in ambito tanto tecnologico quanto dottrinario, si pensi al concetto di jointness. Questo ha spinto la Repubblica Popolare a pensare ad una modernizzazione che non riguardi soltanto le dotazioni ma che includa anche lo sviluppo di nuove dottrine militari. La medesima cosa succede negli anni successivi: l’enorme grado di avanzamento tecnologico americano fa pensare a Pechino che la superiorità militare statunitense sia talmente schiacciante da dover tornare ad investire massicciamente sull’EPL.
Ad oggi i punti di forza dello strumento militare di Pechino riguardano certamente l’integrazione delle nuove tecnologie. Le ricadute di questo aspetto possono essere apprezzate in relazione all’elaborazione di nuovi concetti operativi e all’implementazione di sistemi d’arma sempre più sofisticati. Tuttavia, se il leapfrogging tecnologico di Pechino è sicuramente un punto di forza, allo strumento militare cinese mancano ancora capacità fondamentali, prima fra tutte quelle inerenti la “guerra anfibia”. Lo svolgimento e la buona riuscita di queste manovre sono legati alla possibilità di attivare operazioni coinvolgenti almeno quattro domini contemporaneamente: aerospaziale, marittimo, terrestre e informativo. Sembra che la Repubblica Popolare non abbia ancora dimostrato di avere le effettive capacità per gestire un simile coordinamento.
Si può costruire uno strumento militare efficace senza che questo abbia alle spalle una significativa esperienza di combattimento?
Nessuno strumento militare può essere veramente funzionante senza la “prova del fuoco”. La stessa dottrina militare, nel suo senso più ampio, è sostanzialmente costruita sulla base di concetti e rappresentazioni delle best practices sviluppati a partire da impieghi passati delle Forze Armate. La Repubblica Popolare, non avendo una vera e propria esperienza diretta, difetta anche di questi. L’ultimo vero impiego operativo dello strumento militare cinese risale 1979. Ovviamente ci sono altre situazioni che hanno visto l’intervento dell’Esercito Popolare di Liberazione ma parliamo di impieghi decisamente residuali. Ciò ha un impatto significativo sulla capacità dei vari servizi che compongono una forza armata di operare congiuntamente. Questo è sicuramente un grande problema per l’EPL che, per sopperire alla mancanza di esperienza diretta, partecipa ad una molteplicità di attività addestrative. Inoltre, credo che la stessa volontà cinese di prepararsi a combattere la cosiddetta “guerra del futuro”, spostando sempre più in là l’orizzonte temporale tenendo come “punti fissi” gli appuntamenti del 2027 e del 2049, evidenzia il fatto che la Repubblica Popolare non si sente ancora pronta a combattere la “guerra di oggi”. Anzi, se lo facesse probabilmente fallirebbe. Pensiamo anche ai riferimenti alla “Forza Armata di classe mondiale”: una condizione del genere sicuramente rappresenta l’end state. Ma ad oggi siamo ancora lontani da tale risultato.
Ricollegandoci proprio al concetto di world-class military, in che modo secondo lei l’Esercito Popolare di Liberazione può “mettersi al servizio” di concetti quali la Global Security Initiative?
Alla base di questi concetti credo ci sia una grande contraddizione: aspirare a dare forma alle relazioni internazionali senza però volersene accollare i costi. Fra questi vi è la necessità di essere un provider di sicurezza. A mio giudizio, la Cina sa di non essere ancora in grado di adempiere a questo specifico ruolo. Questa è poi la grande differenza che esiste tra la Repubblica Popolare e gli Stati Uniti: il modello americano, basato su istituzioni, organizzazioni internazionali ed altri meccanismi di risoluzione delle controversie ha alla base una garanzia di ultima istanza, cioè la possibilità dello strumento militare statunitense di intervenire in difesa dello status quo. Questo comporta costi non solo economici e militari, ma anche di immagine. Ad oggi, la RPC non sembra ancora intenzionata a sobbarcarsi di queste responsabilità. Inoltre, iniziative come la GSI scontano sempre un problema alla base: la loro vaghezza. Pensiamo ad esempio al NASC (New Asian Security Concept) o al suo predecessore, l’ASC (Asian Security Concept). Queste sono semplicemente morte da sole, anche perché non erano concretamente chiari quali fossero i vantaggi derivanti dall’essere inclusi o meno all’interno di queste iniziative. Credo, quindi, che queste nuove “architetture” promosse dalla Repubblica Popolare siano ancora piuttosto farraginose.
Pensa che la Repubblica Popolare Cinese utilizzerà veramente lo strumento militare per “reintegrare Taiwan nella madrepatria” oppure crede che utilizzerà metodologie diverse?
Gli americani sembrano essere molto determinati a garantire Taiwan. Finché esisterà una garanzia così forte, magari anche accompagnata con l’apertura di un canale diplomatico con i cinesi per la discussione di una soluzione pacifica, onestamente credo che la soluzione militare non sia applicabile da parte della Repubblica Popolare. Arriviamo al tema più dibattuto: si parla del 2027 come possibile orizzonte temporale entro cui la Cina potrebbe tentare un’azione militare ai danni di Taiwan. Personalmente, credo sia abbastanza inverosimile pensare ad una manovra di invasione entro questo limite temporale, anche in considerazioni delle possibili amministrazioni statunitensi che potrebbero esserci in quel momento. Pensiamo ad un possibile mandato presidenziale DeSantis, o immaginiamo una seconda amministrazione Biden o Trump. La garanzia americana su Taiwan è stata la punta di lancia della politica estera di entrambi. Come è possibile immaginarsi un’azione militare di Pechino in un contesto del genere? Per giunta dopo avere assistito al fallimento russo in Ucraina. Stando a quanto sappiamo, sembra oggettivamente uno scenario poco probabile.
Di Francesco Lorenzo Morandi