Quando sembrava che Xi Jinping avesse completamente blindato il Paese al suo volere, attraverso la revoca del limite del mandato presidenziale, l’accumulo di cariche e un controllo sempre più esteso su media e mondo della cultura, sono venuti fuori i primi spifferi.
Si è detto e scritto che forse il numero uno cinese non è più saldamente nel pieno controllo del Paese. Ed è innegabile che la svolta autoritaria di Xi, in una nazione che negli anni ha cercato di limitare i rischi di un forte autoritarismo, potrebbe causare dei problemi nella gestione di un Paese che non cresce più come dieci anni fa. Un altro elemento che potrebbe finire per indebolire le richieste totalizzanti di Xi è la nuova postura internazionale della Cina, che la pone di fronte a nuove sfide — ad esempio i dazi con gli Stati Uniti — o a potenziali motivi di attrito con altri Paesi (ad esempio a causa delle recenti basi militari installate da Pechino a Gibuti e in Afghanistan).
A sancire l’esistenza di rischi per una tranquilla gestione del potere da parte di Xi nella Cina del 2018, è arrivato un pamphlet, un documento di oltre 10mila caratteri, da parte di un intellettuale, Xu Zhangrun, docente di legge alla Tsinghua University. Si tratta di un’opera che ha fatto molto discutere e che probabilmente rispecchia il parere di tanti altri docenti, che però — meno coraggiosi di Xu — hanno scelto da tempo la via del silenzio e dell’accettazione dello status quo.
Nel testo di “Imminent fears, immediate hopes”, Xu ricorda i principi fondamentali sui quali si è basata la convivenza politica in Cina nel post maoismo, elencando alcune paure che cominciano ormai a serpeggiare nella società — descritta oggi come ansiosa, paranoica, preoccupata e angustiata — derivanti principalmente dalla stretta totalitaria operata da Xi Jinping. Infine elenca otto speranze, ovvero suggerimenti che Xu ritiene dovrebbero essere seguiti per non interrompere quella che il professore chiama la strada per una normalizzazione della Cina (tra questi, oltre al ripristino del limite dei due mandati, si chiede anche una definitiva chiarezza sui fatti di Tienanmen del 1989).
In sostanza Xu ritiene che fino all’era di Xi Jinping, la Cina si fosse spogliata via via dei suoi aspetti totalitari, giungendo a una situazione di “autoritarismo” tutto sommato bilanciato: le libertà che i cittadini cinesi — libertà sociali e non politiche, viene specificato — hanno guadagnato avevano creato una situazione nella quale pareva potersi avviare un processo verso una normalizzazione del Paese. Un Paese che sarebbe potuto, secondo Xu, continuare a stare sotto al giogo del partito comunista, ma con una leadership in grado di rispettare alcune specifiche regole. Una di queste, la più importante, era proprio il limite di mandato. Caduto quello, rischia di cadere tutto il resto.
Il pamphlet di Xu è interessante per diversi motivi, ma nasce e sembra rivolgersi per lo più agli intellettuali del Paese, senza nascondere sentimenti nazionalistici, specie quando rimprovera gli investimenti che la Cina fa all’estero, anziché farli in casa, una sorta di “prima i cinesi” acculturato. Xu non si riferisce a quegli strati sociali — lavoratori in testa — che più di tutti stanno soffrendo per il rallentamento dell’economia. Xu si rivolge agli intellettuali e alla classe media, quella parte di società che non vuole correre il rischio di perdere il potere economico guadagnato: secondo Xu infatti, la svolta di Xi metterebbe a rischio anche proprietà e ricchezze.
Xu dunque costituisce una resistenza che fa riferimento a chi non vuole perdere privilegi, non certo a chi di privilegi non ne ha e da tempo chiede garanzie minime in termini di diritti.
Se vogliamo parlare di spifferi in relazione allo strapotere di Xi, sembra che perfino testi così vibranti contro la leadership non possano costituire davvero un problema. A poter creare grattacapi e non da poco a Xi è la situazione sempre più complicata del mondo del lavoro dove negli ultimi tempi si sono contate migliaia di proteste e una sorta di regressione anche delle richieste degli operai, a causa della difficoltà di essere pagati e di poter vedersi garantire diritti minimi. Parliamo di centinaia di migliaia di persone, pronte a rispettare il partito, ma intransigenti nel chiedere risposte.
Come ha scritto Geoffrey Crothall su Chinoiresie, «Per i lavoratori cinesi, i primi cinque anni della gestione Xi Jinping (2013–2018) sono stati caratterizzati da una crescita economica più lenta, dal declino delle industrie tradizionali e da una rapida crescita delle industrie di servizi, insieme all’uso sempre più crescente di flessibilità e lavoro precario». Ciò — prosegue Crothall — ha portato «a un cambiamento della natura e della portata delle proteste dei lavoratori», spostando l’attenzione dalle fabbriche del Guangdong, «il tradizionale cuore dell’attivismo operaio in Cina», a industrie sparse in tutto il Paese. «Nella stragrande maggioranza dei casi, l’azione collettiva durante questo periodo è stata innescata non dalle richieste di migliori condizioni di lavoro, ma dalla necessità di difendere le disposizioni più basilari del diritto del lavoro».
Se a queste proteste uniamo la difficoltà nel gestire l’immane opera di robotizzazione e l’altrettanto inquietante sviluppo di tecnologie sempre più invasive, è chiaro che in futuro, per quanto Xi abbia sigillato il suo potere, il problema vero per il partito comunista sarà il mantenimento della stabilità. E a minacciare la leadership saranno proprio i lavoratori, sia delle industrie tradizionali, sia delle tante app e startup che ora come ora fanno la parte del leone, ma che presto potrebbero scontarsi con la richiesta di diritti da parte dei loro lavoratori.
[Pubblicato su Eastwest]
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.