Una bambina di tre mesi viene trovata morta, uccisa dalla madre che non riusciva più a sopportarne le lacrime. Partendo da un tragico evento di cronaca, Annie Zaidi riflette su feticidi, leggi anti dote e condizione della donna indiana costretta a sposarsi per comprarsi un po’ di libertà.Chissà chi le aveva scelto il nome. Non proprio uno dei miei preferiti, per una bambina: Ahuti significa “sacrificio”. Ed eccola lì, solo tre mesi, malmenata a morte senza che nessuno ne sappia veramente il motivo. La madre di Ahuti è stata arrestata ed ha confessato, davanti alla polizia, di aver picchiato lei la bambina. Non ce la faceva più a sentirla piangere tutto il giorno.
Penso anche a Dharmishtha Joshi – chi l’ha chiamata così? Che razza di infanzia avrà avuto? Le dichiarazioni degli opinionisti fioccano. Dicono che la nostra cultura sta diventando sempre più rabbiosa ed intollerante.
Penso a Dharmishthra Joshi, a casa da sola, mentre prova a cavarsela con due neonati (ed uno morto di recente); un marito spesso assente col quale lei, chiaramente, non aveva un gran rapporto. Era furiosa per qualcosa. Per molte cose. E siccome non sapeva cosa farne, di quella furia, si è sfogata sulla bambina.
Che tipo di vita sognava Dharmishthra? Voleva davvero quei bambini? E se non li voleva crescere, cosa ne avrebbe fatto di loro?
Dobbiamo giustamente condannare la sua violenza, ma dobbiamo anche pensare alle conseguenze dell’obbligare una donna a riprodursi senza cambiare il nostro ecosistema sociale e morale. Per come stanno oggi le cose, una donna che picchia i propri figli dà meno scandalo di una che si rifiuta di avere figli, o che offre di darli in adozione, se non se la sente di crescerli.
Nonostante tutti i nostri mea culpa per il crollo del rapporto tra i sessi in India, ci si indigna meno per una figlia morta che per una figlia che va in discoteca.
Ora si parla di aggiornare le nostre leggi per combattere il feticidio femminile. Ci sono progetti per monitorare l’utero materno, raccogliere dati per ogni gravidanza. Ci piacerebbe mettere al mondo delle bambine, preoccupati come siamo di non averne abbastanza nel nostro Paese, ma non ci interessa particolarmente che cosa vogliano farne della propria vita, queste bambine.
Si parla di abrogare le leggi contro la dote, per evitare che vengano utilizzate per altri scopi. Ma non riusciamo a capire che ogni famiglia che accetta di pagare una dote, a transazione conclusa, non ha nessun interesse a stracciarsi le vesti per questo motivo.
Non c’è un solo politico in questo Paese che sia disposto a combattere una campagna anti dote tipo: “Non sposatevi con un marito che pretende la dote. Andatevene. Non provate a ‘salvare’ un matrimonio coi soldi”.
Infatti alcuni Stati la dote la incoraggiano indirettamente, promuovendo dei programmi di sovvenzioni statali per consegnare denaro contante alle ragazze in età da matrimonio, al posto di spendere quei soldi per borse di studio o corsi di formazione professionale; chief minister che incoraggiano il kanyadaan ( “donare la propria figlia”, “donare la vergine”, pratica tradizionale del matrimonio hindu in cui la sposa serve cibo a tutti gli invitati, ndt), favorendo le spese pazze dei matrimoni indiani. Nessuno che respinga o critichi questi banchetti decisamente fuori budget per la maggior parte delle famiglie indiane.
Il nodo centrale della maggior parte delle leggi sul feticidio femminile è l’accusa: chi si deve colpire? La moglie? Il marito? Il dottore? Il radiologo? E però ci rifiutiamo di affrontare a viso aperto la terribile ipocrisia che rende queste leggi necessarie.
Dobbiamo capire che non possiamo proteggere le nostre bambine in una società dove le donne adulte non sono protette. In un ecosistema dove i panchayat (la più piccola unità dell’amministrazione locale in India, ndt) dichiarano che il matrimonio sia un buon modo per combattere gli stupri, dove le persone non sono libere di scegliersi il proprio partner, dove non c’è via d’uscita da una maternità – voluta o meno – possiamo aspettarci delle madri amorevoli?
E così, come sono triste per Ahuti, lo sono per Dharmishtha. Non riesco nemmeno ad immaginare i demoni che la tormentano, ma so che il matrimonio e la gravidanza sono spesso solo strumenti per ottenere rispettabilità, comprarsi la pace o la libertà dalle aggressioni. Ed è un prezzo difficile e crudele da pagare.
*Annie Zaidi scrive poesie, reportage, racconti e sceneggiature, non necessariamente in quest’ordine. Il suo libro I miei luoghi: a spasso con i banditi ed altre storie vere è stato pubblicato in Italia da Metropoli d’Asia.
[Articolo originale pubblicato su Daily News and Analysis]