Dove andrà la Cina? Quali saranno le sue scelte economiche e politiche? Come gestirà un cambiamento economico epocale, tra problemi legati all’ambiente, gli scioperi, i problemi della terra, i tanti laureati che non troveranno lavoro e alla crisi che ancora morde il mondo occidentale? C’è chi ritiene che – dati i tanti focolai di tensione sociale – il compito principale di Xi Jinping e soci sia quello di fare in modo che il paese “tenga”, ovvero che sia in grado di mantenere la barra delle riforme, provando a ridurre una diseguaglianza sempre più netta.
A ottobre prossimo ci sarà il tradizionale incontro della leadership che dovrebbe mettere nero su bianco i punti fermi delle prossime riforme. Programmi economici che sono piuttosto chiari, ma sulla cui realizzazione esistono ancora molti dubbi. Mercato interno, liberalizzazioni e urbanizzazione delle medie città: sono questi i punti fermi, oggi, in attesa di capire quali saranno i metodi con cui verranno attuati.
Partiamo dal primo punto, le grandi aziende di stato, perché insieme al carico economico portano con sé un’importante componente politica. Al solito per comprendere adeguatamente quanto la Cina pensa di attuare sul piano economico è bene partire dall’ultimo pacchetto di stimoli impegnativo, quello del 2008, che secondo molti osservatori ha finito per favorire le grandi aziende di stato, come specifica Barry Naughton, nel suo Understanding the Chinese Stimulus Package.
Questo avrebbe creato, specie nel biennio 2009-2011 una vicinanza importante tra le politiche della leadership e la cosiddetta “nuova sinistra”, specie nell’invito a sviluppare l’industria interna cinese in settori chiave dell’economia (in modo particolare nell’ambito tecnologico). Uno dei “vecchi economisti” (jingchengsilao), considerato un intellettuale della sinistra, Liu Guogang, nel 2009 specificava proprio come la capacità cinese di rimanere indenne dalla crisi fosse garantita dall’esistenza in Cina di meccanismi di controllo statale dell’economia, capaci di evitare al Dragone il fosso della crisi economica.
Con la cacciata di Bo Xilai e la spinta contro tutto il movimento della Nuova Sinistra, la Cina sembra aver preso un’altra strada, nonostante alcune resistenze e l’anatema lanciato alcuni giorni fa da un economista liberale, secondo il quale la sinistra cinese avrebbe ancora un peso determinante nelle scelte economiche della leadership. Si tratta di Mao Yushi: nel mese di aprile durante un suo discorso a Changsha, roccaforte operaia cinese, era stato deriso da alcuni maoisti.
Per questo e per l’attenzione che Xi Jinping ha avuto nello specificare che non tutto il passato, compreso Mao Zedong, è da buttare, gli economisti liberali hanno lanciato una critica contro la presunta forza che la sinistra cinese starebbe mettendo in campo, soprattutto sul tema della diseguaglianza sociale, una preoccupazione piuttosto presente nei discorsi dei leader cinesi.
A confermare questa – apparente- confusione ideologica della leadership, ha contribuito il rifiuto di Li Keqiang di un piano di sviluppo della commissione ad hoc riguardo l’urbanizzazione, asse portante dello sviluppo cinese e delle future riforme. Il piano di urbanizzazione – è bene specificare, delle medie città e non delle grandi metropoli, anche per questo viene utilizzato il termine chengzhenhua anziché chengshihua -prevedeva una spesa di sei mila e cinquecento miliardi di dollari, una cifra superiore al pil di tutti i paesi del mondo ad eccezione di Cina e Stati Uniti.
Una ricerca della società di consulenza McKinsey & Company ha stimato che nel 2025, il paese potrà vantare 221 città con oltre un milione di abitanti. Urbanizzazione però non significa in automatico crescita e uguaglianza; forse anche per questo Li Keqiang ha rimandato al mittente la proposta, perché il rischio di nuove bolle immobiliari, arricchimenti da corruzione e soprattutto nuova spesa pubblica delle regioni potrebbero causare nuovi squilibri.
Come specifica infatti l’economista Zhang Ming, “la questione che maggiormente preoccupa le persone più lungimiranti è che in futuro l’urbanizzazione possa nuovamente trasformarsi in una corsa agli investimenti su larga scala da parte dei governi locali, generando uno spreco di risorse”.
Del resto nel bel mezzo delle riforme c’è il nodo irrisolto dell’hukou, viatico fondamentale di cambiamento per la Cina che dal 2011 si è scoperta, via censimento nazionale, a maggioranza urbana. Il sistema che lega il welfare al luogo di appartenenza, a fronte di nuovi spostamenti ingenti di popolazione, non favorisce la crescita, perché costringe il neo cittadino cinese a spendere i propri soldi per il welfare, anziché su un mercato interno da ripopolare di consumatori. Ci sono delle proposte al riguardo, che contemplano un allargamento geografico dell’hukou, ma ad ora sono solo idee messe nel mezzo dell’arena politica.
Infine anche se in Cina non c’è il problema tutto italiano di politiche di austerity che minano la crescita, quest’ultimo aspetto comincia ad essere prioritario: secondo uno studio preliminare di Hsbc, il Purchasing Manager Index – il termometro del settore manifatturiero – è ormai pronto a toccare il suo minimo storico negli ultimi sette mesi con il 49,6 in maggio (dal 50,4 di aprile).
Il calo secondo il Financial Times, sarebbe “peggiore del previsto e, cadendo sotto al punto medio di 50 dell’indice, ha segnalato che l’attività industriale della Cina ha iniziato a contrarsi”. Cosa significa? Vuol dire che la Cina deve provvedere a sostegni fiscali per la propria economia e approvazioni rapide per progetti di investimento privato. I liberali spingono per azioni immediate, ma gli esperti internazionali segnalano che la leadership cinese è più favorevole a piani di lunga durata, come ha sempre fatto del resto. E’ in questo contesto che si aprono nuove prospettive, in cui la sinistra cinese potrebbe giocare ancora un ruolo importante.
[Scritto per il Manifesto; foto credits: bbs.3dmgame.com]