A Hong Kong, gli arresti per terrorismo sono passati da zero a 29 nel giro di soli diciotto mesi. Tutto è cominciato il 30 giugno 2020, quando Pechino ha imposta all’ex colonia britannica una legge sulla sicurezza nazionale che punisce i reati di “secessione”, “sovversione dei poteri dello stato”, “terrorismo” e “collusione con forze estere o esterne”. Ma cosa voglia dire esattamente “terrorismo” nessuno lo sa.
Volantini nella posta spiegano ai residenti come individuare il terrorismo. Sui vagoni del tram poster avvertono i passeggeri di “correre, nascondersi e sporgere denuncia” in caso di attacchi violenti. All’aeroporto e nelle stazioni ferroviarie la polizia effettua esercitazioni antiterrorismo. Nelle scuole i bambini vengono istruiti su come smantellare una bomba e maneggiare pistole giocattolo. Non siamo a Islamabad, bensì a Hong Kong, dove dalle proteste pro-democrazia del 2019 la minaccia del terrorismo è diventata una vera ossessione per il governo locale. Nell’ex colonia britannica, gli arresti per terrorismo sono passati da zero a 29 nel giro di soli diciotto mesi.
Tutto è cominciato il 30 giugno 2020, quando Pechino ha imposta all’ex colonia britannica una legge sulla sicurezza nazionale che punisce i reati di “secessione”, “sovversione dei poteri dello stato”, “terrorismo” e “collusione con forze estere o esterne”. Ma cosa voglia dire esattamente “terrorismo” nessuno lo sa. La normativa – che prevede pene fino all’ergastolo e conferisce alle autorità il potere di negare la libertà su cauzione – fornisce una definizione estremamente vaga del termine: la “grave interruzione” dei servizi pubblici e “altre attività pericolose che mettono seriamente a repentaglio l’incolumità pubblica” possono essere considerate atti terroristici.
Secondo il governo, è stata una decisione necessaria: cominciate come marce pacifiche, le proteste pro-democrazia sono talvolta sfociate in episodi violenti. Tong Ying-kit, la prima persona a ricevere una condanna per terrorismo, è stato arrestato nel 2020 per aver travolto con la sua moto un gruppo di agenti di polizia sventolando una bandiera recante uno slogan politico ritenuto sovversivo. Ma in diversi casi l’accusa di terrorismo è stata utilizzata in circostanze che difficilmente rispettano gli standard internazionali. Un esempio è la condanna per “istigazione al terrosimo” comminata a quattro studenti della Hong Kong University che avevano semplicemente commemorato la morte di un cinquantenne colpevole di aver accoltellato un poliziotto.
Altre volte la legge sulla sicurezza nazionale è stata applicata in tandem con la Crimes Ordinance, la normativa di epoca coloniale rispolverata massicciamente negli ultimi due anni per perseguire gli “atti sediziosi”. Così in molti si sono interrogati sulla reale necessità di irrobustire il quadro normativo. Provvedimenti specifici contro il terrorismo erano stati introdotti anche dopo l’attentato dell’11 settembre, nonostante le ultime violenze di matrice politica risalgano addirittura alle rivolte dei filocomunisti nel 1967.
L’impressione è che Hong Kong voglia imparare dalla mainland, dove con il pretesto della minaccia jihadista il partito comunista ha adottato forme intrusive di controllo sociale.
Nonostante l’esistenza di un “Counter-Terrorism Emergency Coordination Team”, nel 2018 l’Ufficio di Sicurezza di Hong Kong si è dotato di una nuova task force anti-terrorismo che coinvolge, tra gli altri, polizia, autorità doganali, immigrazione, e vigili del fuoco. Pochi mesi dopo la nascita, la nuova squadra è stata spedita per un training nel Xinjiang, la regione della Cina occidentale dove -secondo l’Onu – le minoranze etniche di religione islamica sono sottoposte a gravi violazioni dei diritti umani. Lo scorso gennaio, la guarnigione dell’Esercito cinese a Hong Kong è passata sotto la guida del generale Peng Jingtang, ex capo delle forze speciali antiterrorismo del Xinjiang. I punti di raccordo con il Far West cinese non finiscono qui. Proprio come nella regione autonoma, anche nell’ex colonia britannica si comincia a parlare di “rieducazione”. Il Dipartimento dei servizi penitenziari ha lanciato programmi per aiutare i detenuti a “distaccarsi da pensieri e comportamenti radicali e a ristabilire valori corretti” attraverso lezioni sulla storia cinese, la Basic Law (la mini costituzione locale) e la legge sulla sicurezza nazionale. Altre iniziative includono seminari per accrescere il senso di identità nazionale e il rispetto delle leggi. Sono state persino avviate sessioni di terapia psicologica per gestire atteggiamenti mentali ritenuti antisociali e violenti. A febbraio erano circa 250 le persone ad aver già partecipato ai corsi.
Ma la rieducazione non riguarda solo chi finisce in manette. Se prevenire è meglio che curare, occorre intervenire con anticipo sugli elementi più manipolabili. Ovvero i giovani. Per Pechino, infatti, è il sistema scolastico hongkonghese ad aver plagiato le nuove generazioni. In particolare, gli “studi liberali” – materia che incoraggia il pensiero critico – sono stati presi di mira per aver stimolato il sentimento anti-cinese tra gli studenti. Sospese le lezioni “sovversive”, l’amministrazione locale ha avviato una revisione dei libri di testo e dei programmi didattici per rinvigorire il patriottismo tra i banchi di scuola.
Come intuibile, non mancano dubbi in merito all’accuratezza delle accuse. Secondo il Dipartimento di Stato americano, “nel 2019, le autorità di Hong Kong hanno falsamente definito terrorismo gli atti dei manifestanti a favore della democrazia e dei diritti umani”. Nonostante l’alto livello di allerta, persino la valutazione ufficiale del governo hongkonghese è che tuttora nell’ex colonia britannica la minaccia terroristica resta “moderata”. In compenso, la campagna contro il radicalismo rischia di compromettere ulteriormente l’immagine di uno dei centri finanziari più importanti d’Asia. Secondo Lydia Khalil, ricercatrice specializzata in terrorismo del Lowy Institute, a prescindere che la minaccia sia reale o meno, il clima teso rischia di avere un impatto sulla valutazioni dei rischi effettuate dalle aziende straniere interessate a operare nella regione amministrativa speciale. Stando a Bloomberg, dall’inizio dell’anno al 30 giugno, 121.500 residenti si sono trasferiti all’estero. Un trend in discesa che prosegue da tre anni lasciando la città a corto di talenti.
A pagare il prezzo più alto, però, nell’immediato non è l’economia. E’ la società civile. Mentre un rapporto sulla radicalizzazione giovanile commissionato tempo fa dall’ex leader locale, Leung Chun-ying, riconosceva la necessità di continuare a coinvolgere i giovani nella vita politica della città, la stretta sulla sicurezza ha colpito duramente i sindacati studenteschi. Organizzazioni che hanno avuto un ruolo cruciale nel favorire una transizione democratica verso la fine della dominazione britannica e all’indomani del massacro di piazza Tian’anmen.
Commentando il giro di vite, il segretario alla Sicurezza Christopher Tang ha dichiarato che i sindacati “hanno arbitrariamente instillato tra gli studenti valori impropri e diffuso messaggi falsi o di parte nel tentativo di incitare l’odio contro il Paese e il [governo], o addirittura hanno sostenuto il ricorso alla violenza e ad atti illegali per fini politici”. A ottobre 2021 erano circa 50 le Ong e i sindacati ad aver già chiuso i battenti.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.