La Cina uscita dall’emergenza Covid ha dimostrato ancora una volta la grande capacità del Partito comunista di mobilitare la popolazione, convogliando gli sforzi per affrontare l’epidemia. Al contempo Pechino dovrà fare i conti con conseguenze economiche che potrebbero mettere a repentaglio la sua stabilità politica. In questo contesto, nel quale a pagare la crisi come ovunque nel mondo saranno le fasce più deboli della popolazione, potremmo scorgere il ritorno dei movimenti neomaoisti, mai tramontati dallo scenario politico locale e tornati in auge un paio d’anni fa durante lo sciopero di lavoratori supportato dagli studenti «maoisti» (arrestati e condannati dal Partito comunista).
LE PERIPEZIE dei neomaoisti, dalla morte del «grande timoniere» all’attuale «era» di Xi Jinping, costituiscono alcune delle tanti lenti attraverso cui leggere sia la storia politica della Cina dal 1976 a oggi, sia l’evoluzione della percezione da parte dei cinesi di tutto quanto è «esterno» al paese. Come spesso accade, i due termini del discorso in questione, i neomaoisti e il Partito comunista, hanno dato vita a rincorse, rotture e complicità capaci di modificare l’assetto politico del paese.
Quando nel 1990 Deng Xiaoping spiegò come la Cina avrebbe potuto crescere e mantenere la stabilità politica, indicando nel «socialismo di mercato» una linea guida valida ancora oggi, l’Occidente prese quelle parole per oro colato, talmente aveva bisogno della «fine della storia»: l’Urss sarebbe crollata nel giro di mesi, perché non attendersi allora il passaggio definitivo della Cina ormai spogliata dai residui maoisti nel mondo capitalistico e all’interno del cosiddetto Washington consensus? D’altronde da lì a poco proprio gli Usa avrebbero a tal punto creduto nella possibilità di trovarsi di fronte a un paese completamente scevro da ideologia e finalmente sulla strada della democrazia, da accompagnare la Cina all’interno del mercato mondiale, sancito nel 2001 con l’ingresso di Pechino nel Wto. Una Cina, dunque, pacificata.
Il Partito comunista, in realtà, non aveva mai raccontato al mondo che all’apertura economica sarebbe seguito uno scivolamento politico verso la democrazia occidentale. E non solo, perché il discorso politico legato all’eredità di Mao non finì con l’epoca delle riforme di Deng così come non si ritirarono mai del tutto le voci negative sull’eccesso di apertura da parte di Deng, vissuto come una vera e propria svendita del paese.
QUESTO RESIDUO POLITICO che oggi si manifesta in molti modi, alcuni dei quali attraverso importanti agganci nell’élite del Partito comunista e che si oppone alla linea politica attuale sottolineando il «tradimento» nei confronti di operai e contadini, è oggetto del libro di Jude Blanchette China’s New Red Guards, the return of radicalism and the rebirth of Mao Zedong (Oxford University Press, pp. 206). Come esplicita l’autore, il neomaoismo è un movimento politico «nato da un diffuso malcontento nei confronti della traiettoria politica ed economica della Cina, alimentato dall’accesso alle tecnologie dell’informazione come Internet e gli smartphone e sostenuto attraverso profonde connessioni con un piccolo, ma influente, gruppo di élite politiche».
Secondo Blanchette, «la longevità del neo-maoismo è sorprendente solo perché abbiamo sostanzialmente frainteso la natura dello sviluppo della Cina dopo la morte di Mao Zedong nel 1976. Nel nostro immaginario collettivo, gli anni ’80 e ’90 – l’era di Deng Xiaoping – hanno visto l’implacabile smantellamento dell’infrastruttura ideologica maoista»; analogamente abbiamo dato per scontato che la società cinese si fosse depoliticizzata in modo totale abbandonando per sempre la radicalità di certe posizioni. Non è così, naturalmente.
LA CONSTATAZIONE dell’esistenza del movimento neomaoista presuppone diverse direttrici: Blanchette analizza innanzitutto il modo con cui il partito ha fatto i conti con l’eredità di Mao, per passare poi ad analizzare l’ambiguo rapporto odierno tra Pcc e gruppi maoisti.
La prima parte del volume, più storica, analizza i momenti salienti, i congressi del Pcc, attraverso i quali si è compiuta la preparazione politica al cosiddetto «miracolo cinese». Blanchette indaga le resistenze dei neomaoisti e il loro, talvolta prudente, talvolta più muscolare, tentativo di creare una vera e propria galassia capace di ramificazioni tanto nell’alta politica quanto nella socialità civile. Dalla nascita dello Youth Study Group, propulsore del movimento, fino al sito Utopia, spento e acceso a seconda della convenienza, ci troviamo di fronte a una danza continua: in alcuni momenti storici il Partito comunista ha utilizzato i neomaoisti per inserire all’interno del proprio corpus politico le parole chiave della «sinistra»; di fronte a un partito composto sempre più da miliardari, la dirigenza cinese utilizzava i neomaoisti per apparire comunque in grado di occuparsi dei problemi degli ultimi.
Questa spinta da sinistra – inoltre – puntando decisamente su elementi anche iper nazionalisti, ha finito per essere utile al Partito comunista in diverse occasioni.
IL LIBRO Unhappy China di cui Blanchette si occupa è un esempio: scritto da Zhang Xiaobo, già noto in certe scene politiche, e pubblicato nel 2009, il volume sosteneva in modo netto la necessità da parte della Cina di mettersi alla guida del mondo e chiudere con ogni influenza esterna. Ma il nazionalismo, come ricorda Blanchette, se può essere utile per fomentare in certi momenti la popolazione (e il periodo attuale lo conferma), è anche un’arma a doppio taglio, perché il nazionalismo «promuove l’amore per la nazione, non per il governo».
I neomaoisti hanno trovato anche un loro rappresentante all’interno dei vertici del partito comunista: si tratta di Bo Xilai l’astro nascente, il predestinato, nonché boss di Chongqing nella seconda metà degli anni Duemila e fautore di una campagna maoista che coinvolse non solo aspetti folkloristici, perché diede vita a un vero e proprio modello economico-politico, il «modello Chongqing». Una parabola finita male con Bo arrestato e condannato all’ergastolo e l’allora premier Wen Jiabao – era il 2012 – protagonista di un ultimo discorso prima del suo ritiro politico indirizzato proprio a sinistra, contro la sinistra.
RIEVOCANDO IL DISASTRO della Rivoluzione culturale, il vecchio Wen aveva sancito coram populo che quanto fatto da Bo Xilai a Chongqing non costituiva un «modello» bensì una pericolosa «deviazione», qualcosa che non sarebbe dovuto succedere mai più. Il discorso di Wen fu una ulteriore conferma di quanto aveva detto anni prima Deng Xiaoping, con la volontà di avvertire i suoi fedeli alleati dei pericoli da cui guardarsi: «Dobbiamo essere vigili con la destra, ma più di tutto con la sinistra».
Il discorso di Wen Jiabao, inoltre, «preparò» l’ingresso in scena di Xi Jinping che probabilmente, prima di salire sul trono, aveva chiesto certezze circa l’eliminazione di ambiziosi rivali politici. Era il 2013 e il neomaoismo appariva ancora una volta all’angolo, dato per morto. Ma quando lo scontro con gli Usa si è ammantato di nuovi spunti, non solo economici, i siti neomaoisti, chiusi dalla fine di Bo Xilai, sono stati improvvisamente riaccesi. La danza è ricominciata.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.