La lezione turca

In by Gabriele Battaglia

Il giorno dopo le celebrazioni clandestine dell’anniversario di Tian’anmen, la Cina guarda oltre confine. Le recenti sommosse popolari in Turchia hanno attirato l’attenzione del Global Times. E la Cina può imparare molto dal paese più laico del Medioriente. Non può esserci riforma politica se non c’è sviluppo economico.  È stretta tra le ennesime celebrazioni clandestine di Tian’anmen e il più tragico disastro sul lavoro degli ultimi anni: l’incendio in una fabbrica per la lavorazione del pollame che ha finora causato 120 morti nella regione nord-occidentale del Jilin.

Tuttavia, la Cina trova comunque il modo di guardare oltre confine e lo fa rivolgendo una particolare attenzione a Istanbul, dove le proteste per la programmata distruzione di un parco cittadino, che dovrebbe lasciare il posto a un centro commerciale e a una grande operazione di speculazione edilizia, si sono trasformate in rivolta popolare contro il governo Erdogan.

La mobilitazione dei sindacati turchi, nelle ultime ore, sposta decisamente il baricentro della lotta, che finora sembrava soprattutto un fenomeno legato ai ceti medi che proteggono la propria qualità della vita – identificabile nel parco – e ai giovani, che non ne possono più dell’islamismo strisciante che si va imponendo sulla società turca.

Ciò che qui conta, è che il Global Times – versione “pop” del Quotidiano del Popolo – pubblica un intero editoriale che allarga il tiro a un tema più universale: si intitola “Le sommosse turche rivelano una democrazia debole” e, prima di bollarlo come l’ennesima invenzione propagandistica (proprio mentre ricorre l’anniversario di Tian’anmen), merita uno sguardo più approfondito.

Il punto, volendo, è molto semplice: Recep Tayyp Erdogan rappresenta un partito islamico. Tuttavia, è un premier eletto democraticamente “dal popolo” più volte e al potere da dieci anni. Però, nel momento in cui attua la repressione (finora 3 morti) di un movimento che vuole “spazzarlo via” facendo uso della protesta di piazza, viene condannato (almeno a parole) dalle stesse democrazie occidentali. Non è forse una contraddizione?

Ora la Turchia, che è “il Paese islamico più laico del Medio Oriente” e che “ha a lungo praticato una forma di democrazia occidentale” che ha permesso alla sua società di svilupparsi bene, si trova di fronte a un dilemma: “Le rinascenti forze religiose rappresentate dal governo Erdogan hanno il sostegno della maggioranza, mentre le forze d’opposizione, che sostengono la laicità e la cultura occidentale, hanno fallito per più di un decennio la scalata al potere dello Stato con mezzi legittimi. Ora devono ricorrere alle proteste di piazza”.

In pratica, così come nei Paesi vicini, “rinascita della democrazia e religione, due forze opposte, stanno rovinando l’equilibrio sociale”. Come se ne esce?

Ed ecco il passaggio fondamentale: “[In questi casi] le democrazie occidentali danno l’ultima parola alla loro costituzione, che gode di autorità assoluta in materia di perturbazioni sociali. Questa autorità si basa su tradizioni culturali profonde e di lunga durata. Questo è il motivo per cui molti Paesi in via di sviluppo sono stati trascinati nel fango dei problemi sociali dopo avere accettato completamente i sistemi politici occidentali”.

Insomma, la democrazia non si inventa né si esporta. Non è un assoluto. La costituzione in cui tutti si riconoscono e che regola i conflitti sociali è figlia di un lungo percorso materiale e culturale, particolare e locale, non di un innesto esogeno.

La conclusione dell’editoriale è nella migliore tradizione del pensiero materialista (e nel solco della ricetta applicata dal Partito agli ultimi trent’anni di storia cinese): “Per affrontare questi difficili problemi, la Turchia ha bisogno di mantenere un percorso costante verso lo sviluppo dell’economia e l’accumulo di successi […]. Il turbolento Medio Oriente e il Nord Africa hanno dimostrato che la riforma politica rischia di finire nel caos, se non si basa su uno sviluppo più complessivo in termini di economia e società”.

E anche la Cina, ovviamente, può trarre insegnamento dai tumulti turchi. “Ciò che conta davvero è un fondamento economico e sociale solido. Senza di quello, qualsiasi tipo di riforme politiche sarà bloccato un giorno o l’altro. Questa è una legge inesorabile che regola lo sviluppo di un Paese”.

Va detto che non è la prima volta che lo spin-off del Quotidiano del Popolo torna sul tema “andiamoci piano con la democrazia” o, se si preferisce, “sviluppiamoci economicamente e poi riparliamo di riforme politiche”.

A gennaio, quando in Cina scoppiò il caso Nanfang Zhoumo – il settimanale del Guangdong a cui la censura impose un editoriale di capodanno diverso da quello scritto dalla redazione – il Global Times uscì con un altro articolo che divenne “linea ufficiale” (fu ripreso dagli altri media di Stato).

Vi si leggeva, a proposito della libertà di stampa: “Tutti i mezzi di comunicazione della Cina possono svilupparsi solo nella misura in cui anche la Cina lo fa, e la riforma dei media deve restare parte integrante di una riforma complessiva della Cina. I media non possono assolutamente diventare una ‘zona politica speciale’ della Cina”.

Tuttavia, l’editoriale della redazione del Nanfang Zhoumo – che fu pubblicato sul social network Weibo – non chiedeva nient’altro che un sempre maggiore rispetto della costituzione cinese che, presumiamo, si basa su tradizioni culturali profonde e di lunga durata. Fu sostituito dal censore con un plauso all’operato del Partito comunista. Dove sta la contraddizione cinese?

[Scritto per Lettera43; foto credits: turkkazak.com]