Tra i due litiganti il terzo gode. Nel caso della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, il “terzo” è l’Unione Europea. O almeno questo è quanto sostiene un rapporto pubblicato lunedì scorso dalle Nazioni Unite secondo il quale – in caso di fallito accordo – non saranno le due superpotenze a trarre beneficio dalle reciproche sanzioni commerciali, bensì il Vecchio Continente e un’altra manciata di paesi.
Pechino e Washington hanno tempo fino al 1 marzo per trovare un’intesa in grado di scongiurare il preventivato aumento delle tariffe americane dall’attuale 10% al 25%. A rischio ci sono altri 267 miliardi di prodotti cinesi su cui Trump minaccia di imporre nuovi dazi con l’obiettivo conclamato di raddrizzare la bilancia commerciale e ridurre il surplus commerciale nelle mani di Pechino, salito a oltre 323 miliardi di dollari nel 2018, il valore più alto dal 2006, stando ai calcoli della Reuters. La Cina ha risposto colpendo 110 miliardi di “made in Usa” con tariffe tra il 5 e il 25%.
Sostenendo l’efficacia della guerra commerciale scatenata contro il gigante asiatico, lo scorso 3 gennaio l’inquilino della Casa Bianca è ricorso a Twitter per annunciare che “il Tesoro degli Stati Uniti ha prelevato MOLTI miliardi di dollari grazie alle tariffe addebitate alla Cina e ad altri paesi che non ci hanno trattato in modo equo”. I fatti, tuttavia, parrebbero dimostrare tutt’altro.
Secondo il rapporto stilato dalla UN Conference on Trade and Development, su circa 302 miliardi di dollari di beni interessati dalla controversia, in realtà, scambi per 250 miliardi verrebbero deviati altrove, di cui circa 70 miliardi verso imprese europee. La relazione sostiene che l’interruzione della catena di distribuzione globale potrebbe portare un aumento dell’export in partenza dall’Unione Europea, anche attraverso la fornitura di merci e materie prime ai produttori direttamente interessati dalle tariffe.
Nello specifico, come esito dei dazi statunitensi, circa 76 miliardi di dollari di scambi annuali in vari tipi di macchinari e dispositivi elettrici verrebbero dirottati verso paesi terzi, mentre le tariffe cinesi comporterebbero una deviazione di oltre 37 miliardi di dollari in automobili, prodotti chimici e materie prime, come la soia, di cui Washington è stato fino allo scorso anno il principale fornitore. Ad oggi il trend è già riscontrabile nel sorpasso dell’export brasiliano a fronte di un crollo su base annua del 94% nelle spedizioni di soia americana (dati di novembre).
In termini relativi, il Messico potrebbe beneficiare anche di più con l’arrivo di commerci per 27 miliardi di dollari, pari al 6% delle esportazioni totali del paese, mentre Vietnam, Australia, Brasile e India tratterrebbero guadagni equivalenti o superiori al 3,5%. All’Unione Europea andrebbe invece un importo pari a circa l’1% del suo export. Lo scenario potrebbe cambiare nel caso in cui i negoziati tra la prima e la seconda economia mondiale sfociassero in un risolutivo accordo. Resta infatti la possibilità che una tregua con il gigante asiatico spinga Trump a riaprire la questione tariffaria in sospeso con il Vecchio Continente.
Molto poco rimane, invece, alle aziende cinesi (il 5% del “made in Usa” sotto tariffe) e americane (il 6% dei 250 miliardi di prodotti cinesi sanzionati), smentendo le promesse di lauti guadagni con cui Trump ha difeso la guerra commerciale contro Pechino. Secondo la U.S. Customs and Border Protection, a dicembre i dazi sulle importazioni avevano già fruttato 13 miliardi di dollari, di cui 8 miliardi provenienti da merci cinesi. Peccato che non siano veramente i governi stranieri a pagare i sovraccosti. Stando a Hurt the Heartland, coalizione di imprenditori e agricoli statunitensi, solo nel mese di ottobre le imprese americane hanno dovuto sborsare 2,8 miliardi di dollari per far fronte alle tariffe. E lo shutdown ha provocato notevoli ritardi nella distribuzione degli aiuti stanziati per sopperire alle perdite riportate dal settore agricolo a causa delle ritorsioni di Pechino.
“Una preoccupazione comune è l’impatto inevitabile che le dispute commerciali avranno sulla fragile economia globale “, conclude l’UNCTAD, “un rallentamento economico spesso accompagna disordini nei prezzi delle materie prime, nei mercati finanziari e nelle valute. Tutto ciò avrà ripercussioni importanti per i paesi in via di sviluppo”.
[Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.