La tecnologia non è solo tecnologia: principio fondamentale della guerra fredda 2.0. Quando si parla dell’importanza che Taiwan riveste per la Cina si tendono a sottolineare gli aspetti storici e identitari. Ma ce ne sono anche di molto più concreti.
LA PAROLA CHIAVE È TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Co.), leader mondiale nella produzione di semiconduttori, elemento essenziale per lo sviluppo del 5G (non a caso in questi ultimi mesi Pechino ha fatto una poderosa campagna acquisti di ingegneri e tecnici della Tsmc) e dell’intera economia digitale. Tanto per intenderci: il colosso di Hsinchu ha il 54,1% del mercato mondiale nel settore fabbricazione e assemblaggio.
Il primo competitor, Samsung, ha il 15,9%, mentre la cinese Smic ha il 4,5%. L’industria dei semiconduttori rappresenta circa il 15% del pil taiwanese, in un’economia votata all’export di componenti elettronici, soprattutto verso Pechino e Hong Kong (60%). Numeri che fanno capire perché a livello commerciale Taiwan ha sempre cercato di mantenere un equilibrio tra Cina e Usa.
Proteggendosi all’interno ma collaborando verso l’esterno. Taipei ha alzato per prima, nel 2013, una parziale cortina di ferro tecnologica coi prodotti cinesi, impedendo l’utilizzo di componenti Huawei e ZTE negli uffici governativi. Il ban delle aziende del Dragone dallo 5G è rimasto implicito. Le tre principali società di telecomunicazioni (Chungwa Telecom, Far EasTone e Taiwan Mobile) si sono rivolte a Ericsson e Nokia.
ALLO STESSO TEMPO, però, l’ingombrante vicino ha sempre mantenuto un ruolo fondamentale per i player tecnologici taiwanesi. Foxconn, il più grande produttore di componenti elettronici al mondo (nonché principale contractor di Apple), è attiva in Cina dal 1988 e ha sul suo territorio 13 impianti. Tra questi, quello di Longhua (Shenzhen) è il più grande della compagnia, una sorta di città nella città e 300-400 mila dipendenti. Huawei pesa invece tra il 14 e il 15% del business di Tsmc, in un rapporto finora di reciproca dipendenza.
TUTTO QUESTO STA CAMBIANDO e per Taiwan e le sue aziende mantenere l’equilibrio è diventato sempre più difficile. L’amministrazione Trump sta cercando da tempo di accaparrarsi la tecnologia taiwanese e tagliare il cordone col mercato cinese.
Un’azione resa possibile dalla dipendenza strategica e militare che l’isola ha nei confronti di Washington, che gioca il ruolo di protettore della sua indipendenza de facto. A maggio è stato annunciato un piano da 12 mliardi di dollari per la costruzione di una fabbrica Tsmc in Arizona. Annuncio che ha ricordato quello fatto l’anno precedente da Foxconn per un progetto in Wisconsin (rimasto per ora ampiamente inevaso).
LA PANDEMIA HA ACCELERATO questo processo, aggiungendo un nuovo aspetto: l’obbligo di licenze speciali per i fornitori di Huawei che utilizzano tecnologie o sistemi di produzione made in Usa. Tsmc è stata costretta a bloccare i nuovi ordini da metà maggio e ha confermato proprio ieri che a metà settembre, se non cambierà qualcosa, la fornitura di chip verrà interrotta. Confermando le previsioni di crescita, sperando in un aumento degli ordini Apple, mentre è spuntata l’ipotesi di una fabbrica in Giappone. Huawei sta cercando alternative a Tsmc ma anche alla parte di progettazione HiSilicon a lei collegata.
E tra le opzioni c’è la taiwanese MediaTek. Foxconn, intanto, si muove per spostare alcune linee produttive dalla Cina all’India con investimenti da oltre un miliardo, dopo averne fatte già rientrare altre a Kaohsiung nel 2019. Per Taiwan il rischio è quello di non poter più mantenere una giusta distanza tra i due giganti e diventare una sorta di “Cuba tecnologica”. E la tecnologia non è solo tecnologia, è geopolitica. Per Taipei, quasi sopravvivenza.
[Pubblicato su Il Manifesto]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.