Ore prima che lo Stato islamico nella provincia del Khorasan (Iskp) lanciasse il suo commando suicida per colpire l’Abbey Gate di Kabul, raccontava un servizio di NikkeiAsia, la ministra indonesiana degli esteri Retno Marsudi si incontrava a Doha con Sher Mohammad Abbas Stanekzai, a capo dell’Ufficio politico dei Talebani nella capitale del Qatar. Marsudi voleva dall’alto dignitario dell’ex guerriglia in turbante rassicurazioni sul fatto che l’Afghanistan «non diventi un terreno fertile per l’organizzazione e le attività terroristiche» come ha poi twittato la stessa ministra facendo capire chiaramente che le attività dell’Iskp non preoccupano solo i Paesi occidentali o quelli non musulmani.
COME È NOTO, A DIFFERENZA dei Talebani e di Al Qaeda, i peggior nemici degli epigoni dell’autoproclamato califfato di Raqqa sono i musulmani devianti: i primi da demonizzare e punire. A Oriente dell’Afghanistan la paura che le vicende di questi giorni abbiano ringalluzzito quello che si presumeva una sfida fallita, circola dall’India a Singapore, dalla Malaysia all’Indonesia passando per le Filippine, forse il maggior teatro recente di attività estremiste legate ad Al Qaeda ma, da qualche anno, anche ispirate dal verbo del defunto Al Baghdadi. Con una storia di jihadismo ormai ventennale alle spalle (diffuso in Indonesia, più localizzato nelle Filippine), sono soprattutto questi due i Paesi che temono di più dallo Stato islamico, nonostante abbiano maturato anticorpi in alcuni casi persino eccessivi (come la cellula antiterrorista indonesiana Densus 88, che non va troppo per il sottile). In Indonesia la storia recente dell’integralismo armato (che pure aveva avuto un ruolo anche nel ’900), comincia con la strage di Bali dell’ottobre 2002 e con l’entrata in scena della Jemaah Islamiyah, organizzazione qaedista di cui sarebbero stato arrestate alcune decine di membri tra il 12 e il 20 agosto scorso che stavano organizzando un’azione per il 17, giorno dell’indipendenza.
MA PIÙ DELLA JI, sostanzialmente smembrata, si teme la Jamaah Ansharut Daulah, un ombrello locale nato nel 2015 che guarda allo Stato islamico e che raccoglierebbe una decina di gruppuscoli. Forse la miglior difesa continuano a essere le grandi organizzazioni islamiche del Paese che sono state il vero baluardo contro le derive islamiste: Ma ora i timori tornano.
NELLE FILIPPINE, dove la minoranza musulmana conta per il 6%, l’area insulare a Sud del Paese, dove l’islam è maggioranza, è sempre stata turbolenta con azioni eclatanti come la battaglia di Marawi del 2017, combattuta per 5 mesi dai miliziani di Abu Sayyaf e del Maute, collegati allo Stato islamico, con un bilancio di oltre 1000 morti.
E le preoccupazioni sfiorano anche Singapore e la Malaysia dove, nel Paese a maggioranza musulmana, gli islamisti sono però meno aggressivi che altrove ma pur sempre presenti anche, in passato, con qualche azione dimostrativa. I timori forse riguardano più l’area del confine caldo con la Thailandia, dove il conflitto tra l’esercito del regno buddista (di bassa intensità al momento) è sempre sotto traccia con il Fronte rivoluzionario nazionale, ombrello che rappresenta le aspirazioni secessioniste della minoranza musulmana tailandese. Lo Stato islamico ne avrebbe approfittato.
TUTTA QUESTA RETE, diffusa anche in Bangladesh, India, Pakistan, Sri Lanka, Maldive, dipenderebbe dal fantomatico Ufficio al Sadiq diretto dallo sceicco Tamim, che sarebbe la cinghia di trasmissione tra i vari microcosmi e lo zoccolo duro dello Stato islamico «afgano» nella provincia del Khorasan. È per ora solo un nome che si trasmette di rapporto in rapporto e la cui esatta funzione non è chiara. Quanto alla pandemia non ha aiutato: secondo le Nazioni Unite, i Paesi della regione hanno segnalato reclutamenti online durante la crisi Covid 19 (tra l’altro men che risolta): lunghi periodi di tempo online, una delle opportunità migliori per fare proseliti.
Di Emanuele Giordana
[Pubblicato su il manifesto]