Non è un caso che il primo ministro giapponese Suga Yoshihide, subentrato ad Abe Shinzo a metà settembre 2020, abbia scelto due grandi Paesi dell’Association of South-East Asian Nations (ASEAN) come meta del suo primo tour diplomatico: Viet Nam e Indonesia. Del resto, lo stesso Abe visitò gli stessi Paesi (più la Thailandia, ora scenario di proteste democratiche) poco dopo l’insediamento al potere del dicembre 2012, con l’intenzione di attrarre i Paesi del Sud-Est asiatico attraverso programmi di cooperazione allo sviluppo e un inusuale ruolo di leadership nel mantenimento di beni pubblici internazionali negli oceani Pacifico e Indiano.
Prendeva così forma la Free and Open Indo-Pacific, una visione strategica già annunciata da Abe durante un discorso al Parlamento indiano verso lo
scadere dell’effimera premiership del 2006-07. Quella che a tutti gli effetti si potrebbe definire una grande strategia giapponese volta a controbilanciare l’influenza della Cina – nella macroregione che va dalle isole del Pacifico fino alle coste orientali dell’Africa − costituisce una svolta epocale per un Paese che ha tradizionalmente perseguito una politica estera di basso profilo dopo la pesante sconfitta culminata con l’olocausto nucleare. Per Tokyo, il Sud-Est asiatico costituisce il cuore pulsante del cosiddetto Indo-Pacifico, in funzione di interessi commerciali, politici e strategici. Una potenziale sfera di influenza cinese si tradurrebbe in asimmetrie economiche a favore di Pechino, e una proiezione di potenza che
potrebbe facilmente recidere le sue linee di comunicazione marittima, rendendo il Mar Cinese Meridionale un “Lago Pechino”, per dirla con le parole di Abe.
La diplomazia giapponese nel Sud-Est asiatico è stata tradizionalmente circoscritta a quella economica, ma sarebbe errato delimitarla entro un’ottica puramente mercantilista. Influenti decisori politici statunitensi premettero, già nel 1947-48, perché il Giappone venisse irrobustito economicamente in funzione antisovietica e non solo perché uno dei grandi centri industriali (e quindi, potenzialmente, militari) rimanesse allineato con Washington. Un Giappone prospero avrebbe occupato il vuoto lasciato dal collasso degli Imperi coloniali nel Sud-Est asiatico garantendo all’arcipelago, notoriamente povero di risorse naturali, un vitale sbocco economico.
Al contempo, i Paesi scossi da tumultuosi processi postcoloniali avrebbero preferito il libero scambio col Giappone alle sirene del comunismo. Così, il coinvolgimento del Giappone nel Sud-Est asiatico durante la Guerra fredda si inseriva appieno nell’ottica neomercantilista della cosiddetta “linea Yoshida” (Yoshida rosen), che dava precedenza alla ricostruzione economica a scapito della proiezione di potenza, come confermato dal corollario di Fukuda Takeo (la cosiddetta “dottrina Fukuda”) del 1977. Di contro, la sola proiezione economica del Giappone nella regione, in Paesi ASEAN e non, avrebbe al contempo stabilizzato la regione dilaniata dalla guerra del Viet Nam contribuendo ad avviare il commercio intra-settoriale e le reti produttive regionali, una vera e propria “fabbrica Asia” (factory Asia).
Nel 1990 l’economia giapponese, tenendo conto del valore nominale del PIL, costituiva il 14% dell’economia mondiale e le economie dell’Asia Orientale combinate (Cina, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, “ASEAN-5”, Viet Nam e India) corrispondevano al 50% del PIL giapponese; nel 2000 la percentuale arrivava al 70%. A questi numeri corrispose un senso di autocompiacimento sul perdurare della primacy economica giapponese in Asia Orientale, con poche serie minacce alla sicurezza nell’immediato post-Guerra fredda.
Di contro, l’ascesa economica e militare della Cina, culminata nel sorpasso del PIL nipponico nel 2010 e lo sviluppo di forze di proiezione navali, ha richiamato l’attenzione degli strateghi giapponesi già a metà degli anni Duemila. L’iniziativa di Tokyo a favore di un “Indo-Pacifico Libero e Aperto” (Free and Open Indo-Pacific – FOIP) ha assunto diverse trasmutazioni nel corso degli anni, ma la sua genealogia deve essere fatta risalire al cosiddetto “Arco della Libertà e della Prosperità” (Arc of Freedom and Prosperity – AFP), una visione strategica enunciata dall’allora ministro degli Esteri Aso Taro nel 2006. La mia ricerca sulla politica estera e di sicurezza del Giappone nei confronti della Cina, facilitata da fieldwork pluriennali a Tokyo e Washington D.C., fa risalire l’emergere di una grande strategia proprio alla ristretta cerchia di decisori politici attorno ad Abe e Aso − un suo sodale. E l’avvento di una visione strategica giapponese che controbilanciasse più attivamente la Cina a livello militare ed economico mentre, sul fronte del soft power, coincideva non a caso con le iniziative dell’alleato americano, con cui l’establishment della sicurezza nazionale giapponese era arrivato a stabilire obiettivi strategici di comune accordo già nel 2005.
Ma l’AFP venne ritenuto indigesto dai Paesi dell’Asia Sud-orientale e dal premier asiatista e conservatore vecchio stampo, Fukuda Yasuo, che succedette ad Abe nel 2007. Il timore riguardava un’esagerata securitizzazione dei mari del Sud-Est asiatico in funzione anticinese, con annessi toni neoconservatori che poco si sposavano con i diversi regimi autoritari in seno all’ASEAN. Una componente securitaria è innegabile. Abe ha coerentemente premuto per una parallela opera di bilanciamento esterno della Cina attraverso le intese cordiali con India e Australia e un approfondimento dell’alleanza nippo-americana.
Il Quadrilateral Security Dialogue (QUAD) – un’iniziativa promossa da Abe durante la sua prima esperienza di primo Governo e resuscitata nel secondo – mira a coordinare le iniziative di tali potenze marittime in funzione della proiezione cinese nei mari. E si consideri che il QUAD è considerato il “centro della FOIP” dallo stratega che ha escogitato l’AFP. Così, ad esempio, i due Governi Abe hanno ritrovato nelle esercitazioni militari congiunte uno strumento per per coordinare le operazioni della Marina giapponese con quelle dei membri del QUAD, con l’eventuale allargamento ad attori europei. Premendo al contempo per una proiezione navale che andasse ben al di là del Mar Cinese Orientale, il secondo Governo Abe ha coinvolto diversi Paesi ASEAN – Viet Nam e Singapore in primis – in scali strategici e diplomazia navale impensabile solo dieci anni fa. Va da sé che il Mar Cinese Meridionale, principale sbocco per i mari della Cina e teatro di numerose dispute territoriali e marittime con diversi Paesi ASEAN, sia stato al centro delle iniziative giapponesi.
Una politica estera cinese decisamente più assertiva e intraprendente sotto Xi Jinping, e l’uso oculato del Giappone di leve persuasive extra-militari, hanno favorito l’esportazione del concetto di Indo-Pacifico, pur se declinato in maniera poliedrica dai diversi Stati e organismi multilaterali. Ad oggi si annoverano l’Australia e gli Stati Uniti – che per la prima volta nella storia, hanno fatto proprio un’iniziativa di politica estera e di sicurezza di un Paese alleato – l’India, la Francia, la Germania, l’Olanda e l’ASEAN. Sotto la presidenza indonesiana, l’ASEAN si è dotata nel 2019 di un proprio outlook sull’ Indo-Pacifico e, attraverso l’intercessione della Thailandia su Pechino, i Paesi ASEAN si sono prima accertati che non ci fossero remore da parte della Cina. Eppure, la componente securitaria della FOIP è rimasta immutata: il QUAD è stato resuscitato nel 2017, e i meeting si sono fatti via via più regolari, potenzialmente allargandosi ad altri Paesi.
Pur se mosso da intenti chiaramente atti a negare una sfera di influenza cinese nel Sud-Est Asiatico, e con una componente securitaria, il Governo giapponese ha cercato di smussare gli angoli della FOIP già verso la fine del 2018, diminuendone la valenza strategica (sulla carta) ed enfatizzandone la libertà e l’apertura in senso economico anziché politico. Al contempo, Tokyo rassicurava Pechino riguardo la complementarietà del FOIP con la Belt and Road Initiative, se non altro a livello retorico. Insomma, con l’inasprirsi delle relazioni sino-americane, Tokyo si ritagliava uno spazio per rassicurare i Paesi ASEAN circa il carattere costruttivo della FOIP giapponese.
La débâcle dell’Arco della Libertà e della Prosperità è servita come monito. Il Giappone di Abe ha ingaggiato i Paesi ASEAN anche attraverso leve economiche utilizzate in senso strategico. A partire dal primo Governo Abe, Tokyo ha contabilizzato navi della Guardia costiera, aerei per il pattugliamento marittimo e finanche azioni di “capacity building” per gli operatori degli stessi come Official Development Assistance (ODA), ovvero aiuti allo sviluppo. E i principali beneficiari sono gli Stati ASEAN con accese dispute territoriali e/o marittime con Pechino: Filippine, Viet Nam ed Indonesia. Una scorsa veloce ai progetti infrastrutturali della FOIP giapponese nei Paesi ASEAN lascia intendere un ritrovato interesse nella promozione dei propri campioni nazionali e l’esportazione di sovraccapacità, ma anche un intento di natura geopolitica nel contrastare l’avanzata cinese9 . Ad esempio, il Giappone si è fatto promotore di direttive ferroviarie Est-Ovest nell’area del Mekong, in contrasto con quelle Nord-Sud promosse dalla Cina. Infine, in termini di asset detenuti e di internazionalizzazione della valuta, gli investimenti giapponesi appaiono ancora superiori a quelli ufficiali cinesi11, ancorché non sia facile fare comparazioni tenendo conto delle notevoli opacità intorno agli investimenti ufficiali cinesi.
La promozione del Comprehensive and Progressive Transpacific Partnership Agreement, che include diversi Paesi ASEAN, aspira chiaramente ad ancorare economie minori nell’orbita giapponese e potenzialmente, in futuro, americana. Il mega-trattato commerciale del Regional Comprehensive Economic Partnership Agreement (RCEP), a guida ASEAN e recentemente firmato, piace al Giappone nella misura in cui si espanda all’India per diluire il peso economico di Pechino. E il Giappone ha giocato un ruolo di sponda all’alleato americano, sia con l’amministrazione di Barack Obama sia con quella di Donald Trump: generosi aiuti allo sviluppo alle Filippine hanno evitato una rottura sul fronte strategico tra il populista Rodrigo Duterte e gli Stati Uniti; e se Trump ha favorito alcuni Paesi ASEAN con la sua offensiva tecno-commerciale contro la Cina, il Giappone ha inaugurato nel 2020 una Supply Chain Resilience Initiative con l’Australia e l’India, mettendo 2,3 miliardi di dollari a disposizione di imprese giapponesi interessate a delocalizzare fuori dalla Cina.
Come cambierà l’approccio di Suga Yoshihide? Non di molto. Suga è stato il potentissimo capo di Gabinetto di Abe lungo l’intera premiership di Abe, la più longeva della storia del Paese. Suga è stato sicuramente scelto da Abe come delfino perché non disfacesse la sua eredità politica, dall’Abenomics alla politica estera e di sicurezza. Lo stesso Suga ha ammesso sia le proprie carenze in politica estera sia il desiderio di seguire i suggerimenti del Ministero degli Affari Esteri giapponese e dello stesso Abe. Se si considera che il fautore del FOIP, Ichikawa Keiichi, fu già segretario esecutivo di Suga, si ravvede che il concetto – nelle intenzioni del Governo attuale – non scomparirà. Bisogna ora capire che postura assumerà la nuova presidenza statunitense di Joe Biden nei confronti della visione strategica giapponese.
Di Giulio Pugliese
[Pubblicato su RISE*]
*A questo link il volume di RISE (prodotto editoriale di T.wai – Torino World Affairs Institute) dedicato al Giappone nel Sud-Est asiatico