Negli anni ’90 il Governo lancia una campagna per promuovere la vendita del sangue tra i contadini. Questi aderiscono in massa, vogliono case di mattoni e nuovi pollai. Alcuni si arricchiscono e altri si ammalano di febbre: aids. China Files vi regala il primo capiolo de Il sogno del Villaggio dei Ding, romanzo che unisce magistralmente cronaca e letteratura (per gentile concessione della casa editrice Nottetempo).
Era il crepuscolo di un giorno di fine autunno. Nella luce del sole al tramonto la pianura del Henan orientale pareva essersi trasformata in una distesa di sangue. Il rosso del tramonto autunnale copriva cielo e terra. La stagione era inoltrata e faceva un freddo pungente, così per le strade del Villaggio dei Ding non c’era anima viva. I cani si erano rintanati nelle loro cucce. Le galline se ne stavano appollaiate sui trespoli. Anche le mucche si erano da un pezzo sdraiate al calduccio delle stalle.
Il Villaggio dei Ding era immerso in un silenzio assoluto, palpabile. Era ancora vivo, ma sembrava morto. E in quella quiete, in quel profondo autunno, in quel crepuscolo, il villaggio era come appassito, anche le persone erano come appassite. Inaridite. Anche la vita si era inaridita, come un cadavere sepolto nella terra.
La vita assomigliava a un cadavere.
L’erba della pianura era secca.
Gli alberi della pianura, secchi.
Le dune di sabbia e i campi coltivati, dopo l’ondata rosso sangue, parevano anch’essi rinsecchiti. La gente del villaggio se ne stava rintanata in casa, nessuno usciva piú.
Quando il nonno Ding Shuiyang tornò dalla città, il crepuscolo si era già disteso sulla pianura. L’autobus con cui era giunto da Weixian l’aveva lasciato sul bordo della strada come il vento d’autunno lascia per terra una foglia morta, prima di proseguire verso la lontana Dongjing. La strada che conduceva al Villaggio dei Ding era stata cementata dieci anni prima, all’epoca in cui tutti gli abitanti si vendevano il sangue.
Il nonno se ne restò lí sul bordo della strada a guardare il villaggio che si stendeva davanti ai suoi occhi, finché una folata di vento non scosse la sua mente intorpidita dal viaggio. Lungo tutto il tragitto non era riuscito a districarsi dal groviglio di pensieri che lo avviluppava.
Ma ora cominciava a capire, per la prima volta da quando era partito dal villaggio in autobus per recarsi in città a sentire tutti quegli interminabili e confusi discorsi dei funzionari locali e ripartire poi alla volta di casa, ora finalmente intravedeva una luce, come se un raggio di sole si levasse in un cielo limpido.
Si rendeva conto che le nubi portano con sé la pioggia. Che l’autunno porta il freddo.
Si rendeva conto che quelli che dieci anni prima avevano venduto il sangue adesso erano destinati ad ammalarsi di febbre. E di febbre sarebbero morti, se ne sarebbero andati come le foglie che d’autunno cadono a terra volteggiando. La febbre se ne stava acquattata nel sangue. Il nonno se ne stava acquattato nei suoi sogni. La febbre amava il sangue e il nonno amava i sogni. Il nonno sognava ogni notte. Da tre giorni continuava a fare lo stesso sogno.
Le città di Weixian e di Dongjing, dove lui era stato, erano attraversate da una rete sotterranea di canali, come una tela di ragno, e in ognuno di quei canali scorreva sangue. Dalle crepe delle giunture mal collegate e dai gomiti delle tubature il sangue zampillava come fosse acqua e schizzava verso il cielo, per ricadere poi come una pioggia rosso scuro, spandendo intorno un odore pungente che irritava il naso. Su tutta la pianura, il nonno vedeva l’acqua dei pozzi e dei fiumi, diventata ormai sangue maleodorante, brillare di riflessi rossi. Nelle città e nelle campagne i dottori piangevano
disperati di fronte all’avanzare della malattia, ma al Villaggio dei Ding un medico, seduto tutti i giorni in strada, rideva.
Sotto il sole dorato, nel villaggio muto dove tutti se ne stavano rintanati nelle loro case dietro le porte sbarrate, si vedeva solo quel dottore sulla quarantina. Indossava un camice immacolato, posava a terra la borsa delle medicine e poi, poi si sedeva sulla strada ai piedi del vecchio albero di sofora e rideva. Sedeva su un sasso ai piedi della sofora e rideva. Rideva a crepapelle. Rumorosamente. La risata sfavillava emettendo un bagliore dorato e, proprio come il vento d’autunno che sferza senza posa il villaggio, scuoteva le foglie ingiallite che cadevano a terra l’una dopo l’altra.
Dopo essersi risvegliato da quel sogno, il nonno era stato convocato dalle autorità provinciali per partecipare a una riunione. Avevano chiamato lui perché il Villaggio dei Ding non aveva piú un capo. E fu proprio al ritorno da questa riunione che il nonno capí tutta una serie di cose. Primo, seppe che la febbre non si chiamava affatto febbre, il suo nome scientifico era AIDS; secondo, quelli che all’epoca avevano venduto il sangue e nel giro di dieci o quindici giorni avevano avuto la febbre, adesso dovevano necessariamente aver contratto l’AIDS; terzo, quando uno era malato di AIDS, all’inizio presentava sintomi identici a quelli di cui aveva sofferto otto, dieci anni prima, cioè febbre e raffreddore che scomparivano con un semplice antipiretico, ma nel volgere di sei mesi, in certi casi anche solo di quattro o cinque, la malattia esplodeva.
Ti sentivi completamente spossato, il corpo ti si riempiva di pustole e la lingua di ulcere, l’organismo cominciava a rinsecchire, come prosciugato. Andavi avanti a penare così per cinque o sei mesi, a volte otto, molto difficilmente riuscivi a campare un anno intero e poi, poi morivi.
Morivi come le foglie che d’autunno cadono a terra volteggiando. La luce si spegneva e tu non eri piú di questo mondo.
La quarta cosa che al nonno apparve con chiarezza fu che, negli ultimi due anni, ogni mese al Villaggio dei Ding era morto qualcuno. Quasi nessuna famiglia era stata risparmiata. Una dopo l’altra, erano morte piú di quaranta persone. Fuori del villaggio le tombe stavano allineate in file compatte come covoni di grano nei campi. Ad alcuni dei malati era stata diagnosticata un’epatite, ad altri la tubercolosi, ma c’erano anche quelli che avevano fegato e polmoni sani eppure non riuscivano piú a inghiottire neanche un boccone.
Nel giro di un paio di settimane, si riducevano in modo tale da sembrare legna secca; avevano uno sbocco di sangue – tanto da riempire magari mezza bacinella – e morivano. Morivano come le foglie che d’autunno cadono a terra volteggiando. La luce si spegneva e non erano piú di questo mondo. A quell’epoca la gente diceva che il tale o la tale aveva avuto una malattia dello stomaco, del fegato o dei polmoni, mentre in realtà si trattava sempre della febbre. Dell’AIDS.
La quinta cosa che capí fu che in origine di febbre si ammalavano soltanto gli stranieri, i cittadini e i depravati, ma che ora si era diffusa in tutta la Cina, anche nelle campagne, anche fra gente dalla condotta irreprensibile. Il contagio si era propagato rapidamente, come un nugolo di locuste sui campi, che in un batter d’occhio si infittisce fino a oscurare il sole.
Sesto, chi prendeva questa malattia era condannato, non c’era denaro che potesse curarla. Era il nuovo male incurabile che si era abbattuto sull’umanità.
Settimo, per la verità questo era solo l’inizio, il picco si sarebbe verificato solo l’anno dopo o quello dopo ancora. Allora la morte di una persona non sarebbe stata diversa da quella di un passero, di una falena o di una formica, mentre per ora quando un uomo moriva era come se morisse un cane e, a questo mondo, i cani sono molto piú degni di considerazione di un passero o di una falena.
Ottavo, io, sepolto dietro il muro della scuola dove il nonno aveva la sua stanza, avevo appena compiuto dodici anni e finito la quinta, quando ero morto. Ero morto per aver mangiato un pomodoro, l’avevo raccolto per strada al villaggio ed ero morto. Avvelenato.
Sei mesi prima ci erano morte avvelenate le galline e il mese dopo era morto il maiale che la mia mamma allevava, perché aveva mangiato una rapa che qualcuno gli aveva lanciato per strada. E alla fine era toccato a me, morire per un pomodoro avvelenato. Qualcuno l’aveva appoggiato su un sasso lungo la strada che percorrevo tornando da scuola. Appena mandato giú mi sembrò che mi tagliassero le budella con una forbice, riuscii a fare solo pochi passi e caddi a terra.
Mio padre arrivò di corsa e mi portò a casa in braccio, mi mise sul letto e lí morii sputando schiuma bianca. Ero morto, ma non di febbre, cioè di AIDS. Ero morto per il gran commercio di sangue a cui mio padre si era dedicato dieci anni prima. Comprare e vendere sangue. Ero morto perché lui era diventato il piú grande trafficante di sangue di una decina di villaggi nei dintorni, fra cui il Villaggio dei Ding, il Villaggio dei Salici, il Villaggio delle Acque Gialle e il Villaggio del Secondo Li. Il re del sangue.
Il giorno che morii, mio padre non pianse. Mi si sedette accanto a fumare una sigaretta, poi si diresse insieme a mio zio verso il centro del villaggio. I due si piantarono all’incrocio, uno con in mano una vanga appuntita, l’altro con un grosso coltello scintillante, a gridare e maledire a squarciagola.
“Venite fuori, bastardi!” gridò lo zio. “Troppo facile avvelenare la gente di nascosto, venite fuori che Ding Liang vi aspetta per farvi la pelle!”
Mio padre urlò, appoggiandosi alla vanga affilata: “Crepate di invidia a vedere che io, Ding Hui, sono ricco ma non mi sono ammalato, eh? Siete gelosi, vero? Io me ne fotto di voi e dei vostri antenati fino all’ottava generazione, mi avete avvelenato le galline, poi il maiale, e alla fine avete avuto il coraggio di avvelenare mio figlio!” E fra urla e insulti, andarono avanti così da mezzogiorno fino a notte, senza che nessuno osasse farsi avanti per rispondere. Alla fine mi seppellirono. Mi seppellirono e basta.
Dato che avevo solo dodici anni e non ero ancora un adulto, secondo la tradizione non potevo essere sepolto nella tomba dei miei antenati, così il nonno si prese in braccio il mio corpicino e andò a seppellirlo dietro alla stanza della scuola elementare del villaggio dove lui dormiva. Nella piccola bara bianca mise il sussidiario, il quaderno dei compiti e la matita.
Il nonno aveva studiato. Era lui che a scuola suonava la campanella. Aveva sempre avuto una passione per la letteratura e la gente del villaggio lo chiamava “maestro Ding”. Per questo nella mia bara mise anche un libro di racconti – un’antologia di racconti. E poi diversi volumi di fiabe e leggende e due dizionari.
E poi, poi mio nonno non ebbe altro da fare, se non attardarsi a pensare davanti alla mia tomba: la gente del villaggio sarebbe stata capace di avvelenare qualcun altro della famiglia? Avrebbe avvelenato anche la sua nipotina, la mia sorellina Yingzi? O forse il nipotino che gli rimaneva, Xiaojun, figlio di mio zio?
Allora gli venne in mente di chiedere a mio padre e a mio zio di andare a prosternarsi davanti a ogni casa del villaggio per supplicare i compaesani di non avvelenare piú nessuno, per l’amor di Dio. Di non lasciare la famiglia Ding senza eredi. Ma un altro pensiero gli venne: che siccome anche mio zio aveva preso la febbre, come punizione per la compravendita di sangue che mio padre aveva intrapreso, non era necessario che andasse a prosternarsi davanti alla gente del Villaggio dei Ding. Sarebbe bastato che ci andasse mio padre.
Nove. Come nona cosa il nonno capí che nel giro di un anno o due la febbre sarebbe esplosa sulla pianura. Sarebbe esplosa come un’alluvione nel Villaggio dei Ding, nel Villaggio dei Salici, nel Villaggio delle Acque Gialle, nel Villaggio del Secondo Li e in decine di altri villaggi, li avrebbe inondati come fa il Fiume Giallo quando rompe gli argini.
Allora la morte di un uomo avrebbe contato come la morte di una formica, come la morte di una foglia che si stacca dall’albero e cade. La luce si spegne e non si è piú di questo mondo, come una foglia che cade a terra volteggiando.
Sarebbero morti quasi tutti e il Villaggio dei Ding sarebbe stato cancellato dalla faccia della terra. Gli abitanti del Villaggio dei Ding, come le foglie di un vecchio albero, sarebbero prima appassiti, poi ingialliti e infine caduti a terra con un fruscio, spinti chissà dove da una raffica di vento. La gente del villaggio spinta chissà dove da una raffica di vento.
Ultimo punto, dieci. Il punto dieci era che quelli del governo provinciale volevano al piú presto radunare e isolare tutti i malati, perché il contagio non si estendesse a coloro che non avevano venduto il sangue. “Maestro Ding,” gli avevano detto, “all’epoca in cui si vendeva il sangue, vostro figlio maggiore era il re, quindi oggi tocca a voi darvi un po’ da fare, assumetevi il compito di convocare i malati del Villaggio dei Ding e portarli a vivere nella scuola”.
Quelle parole avevano fatto sprofondare il nonno in un lungo silenzio, insinuandogli nel cuore propositi inesprimibili, che non lo avevano piú abbandonato. Al pensiero che io ero morto e che mio padre era stato il re del sangue di tutta la pianura, il nonno aveva cominciato a rimuginare l’intenzione di mandare mio padre a prosternarsi in ogni casa.
E una volta finito di discolparsi, sarebbe dovuto morire: che si gettasse nel pozzo, o si avvelenasse, o si impiccasse. Sarebbe dovuto morire subito. Subito, e davanti a tutta la gente del villaggio. L’idea di ordinare a mio padre di andare a prosternarsi davanti a tutto il villaggio e poi di morire lo riempiva di spavento. Eppure, con lo spavento nel cuore, si incamminò verso il villaggio. Verso casa nostra. Ci sarebbe andato davvero.
Sarebbe andato a dire a mio padre di prosternarsi e poi di morire.
*Scrittore di chiara fama, Yan Lianke è nato nel 1958 da una famiglia di contadini nelle sperdute campagne dello Henan. In Cina molti dei suoi libri sono stati ritirati dalle librerie; in Italia sono stati tradotti: Servire il popolo (Einaudi, 2006) e Il sogno del Villaggio dei Ding (Nottetempo, 2011). L’autore sarà all’Istituto Confucio di Milano il 9 dicembre e a "Più libri più liberi" a Roma il 10 dicembre.