Lunedì 15 marzo, una spessa e fitta coltre di aria giallastra, causata da una tempesta di sabbia proveniente dalla Mongolia Interna, ha trasformato Pechino in uno scenario da film apocalittico. Da diversi anni i piani nazionali della Cina mirano all’edificazione di una sorta di “muraglia verde”, un cordone alberato che possa proteggere la capitale dalle tempeste sabbiose e dai cicloni provenienti dal nord, ma sembra che gli sforzi cinesi “pro-ambiente”, che contemplano la lotta contro la desertificazione e il rimboschimento, nonché la drastica riduzione dell’inquinamento e la conquista nazionale della neutralità carbonica, non siano ancora sufficienti né messi completamente in pratica. Infatti, la recente “allerta gialla” è la causa stessa dell’alto tasso di sfruttamento ambientale a cui la Mongolia Interna e le ampie steppe della Cina nord-orientale sono state sottoposte da diversi decenni per via del paradigma di sviluppo nazionale, teso ad accelerare e a potenziare la modernizzazione e le attività industriali del Dragone che, dal suo canto, continua a sbuffare, producendo polvere.
I cittadini cinesi hanno intasato la rete con filmati dell’impenetrabile cielo di Pechino. I video hanno fatto il giro della Cina e del mondo, molto più di un documentario di qualche anno fa che esplora con attenzione il tema delle catastrofi naturali. Zhao Liang, uno dei registi cinesi più rappresentativi del cinema documentaristico indipendente e intimamente motivato da moventi umanistici, nel 2015 si è recato in Mongolia Interna per traslare sullo schermo l’annoso discorso del progresso cinese per mezzo di una teatralizzazione artistica che trova espressione in Behemoth (Beixi Moshuo 悲兮魔兽), un documentario che esplora spazi, luoghi e voci spesso marginalizzate dai media mainstream nazionali.
Non a caso, Behemoth è stato bandito in Cina continentale a causa della trattazione di certe “verità nascoste”, piuttosto scomode, nonché di tematiche socio-politiche quali l’ingiustizia ambientale e i problemi sanitari. Da questo punto di vista, dalla sua partecipazione al 72esimo Festival Internazionale del Cinema di Venezia nel 2015, Behemoth è stato accolto come un vero e proprio capolavoro di poetica cinematografica, tanto che il critico Jay Weissberg ha sostenuto che l’opera non consiste tanto in un film, quanto in una sorprendente pratica estetica all’interno del fenomeno oltraggioso dello “sventramento moderno”, in riferimento alla distruzione dell’ecosistema della Mongolia Interna e allo sfruttamento del lavoro dell’uomo in nome del progresso.
Oltre ad essere estremamente suggestivo a livello scenico per via dello sperimentalismo cinematografico del regista, e dei tratti pittorici di riprese all’avanguardia, il documentario incarna la combinazione tra la passione per il cinema “futuristico” e un impegno socio-politico che ha spinto Zhao Liang a testimoniare in modo realistico, seppur sentimentale, le amare conseguenze della società post-moderna cinese altamente industrializzata, enfatizzando poeticamente la precarietà della vita naturale e la frammentarietà della “coscienza umana moderna”, spesso cieca di fronte al collasso dei tempi e perennemente piegata al peso delle esigenze dello sviluppo.
Nel documentario, Behemoth rappresenta simbolicamente una leggendaria creatura biblica presente nel libro di Giobbe, un mostro disumano che per sopravvivere aveva bisogno di nutrirsi delle montagne terrestri: è la metafora, nuda e cruda, del progresso industriale cinese che si è “nutrito” della natura incontaminata della Mongolia Interna, in un contesto in cui i lavoratori e gli operai sono stati costretti a lavorare nelle fonderie e nelle miniere di carbone, sottostando ai gravosi dettami della legge dell’industrializzazione.
Riguardando il documentario, si potrebbe sostenere che l’immensa tempesta di sabbia pechinese è figlia di venti ben più lontani, e più sofferti, che hanno annientato gli ultimi scorci della natura idilliaca e paradisiaca della Mongolia Interna, destinata a perire sotto le grinfie di Behemoth, un macabro progresso che ha devastato il suolo mongolo e le sue risorse, nonché i polmoni dei lavoratori, infallibilmente macchiati di fuliggine, i quali hanno trasformato gli operai in misere vittime di pneumoconiosi, una delle più gravi complicazioni polmonari derivante dall’inalazione delle polveri, malattia respiratoria che, tra l’altro, l’ultima tempesta di Pechino avrebbe provocato se le autorità non avessero imposto di non uscire di casa a coloro che più soffrivano di criticità salutari.
Il documentario, data la sua cruciale attualità, può aiutare a offrire risposte a molti quesiti di oggi, nonché a comprendere da dove deriva l’esigenza, da parte della Cina, di lottare per un mondo “meraviglioso e sostenibile”. Tuttavia, sono i documentari come Behemoth, mossi dalla necessità di sensibilizzare il pubblico cinese tentando di contrastare quelle politiche cinematografiche che silenziano tematiche “troppo scottanti”, che agevolano la comprensione umana, se non l’apprensione, riguardo a certi problemi sociali ormai non più trascurabili. Del resto, nessuno vorrebbe fare la fine “dell’angelo smarrito” che appare nel film, una solitaria figura che vaga per le lande desolate, tra le macerie, portando con sé uno specchio all’interno del quale Zhao Liang amplifica volutamente, a livello visivo, la desolazione dello scenario ambientale, nonché lo stesso pentimento dell’uomo. L’angelo smarrito potrebbe essere accostato alla figura di Virgilio, la guida dantesca che ci accompagna nella perlustrazione delle nostre colpe.
Con il senno di oggi, quindi, Behemoth rappresenta una testimonianza all’interno della testimonianza dei fatti di Pechino, un documentario che, adesso, sembra persino perdere i suoi originari tratti “futuristici”, e che, già da tempo, avrebbe dovuto rendere lo spettatore attivamente partecipe di uno scenario che non si può fingere che non esista.
di Valentina Consoli
*Laureanda presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia nel corso di laurea magistrale in Lingue e civiltà dell’Asia e dell’Africa mediterranea, curriculum specializzato sulla Cina. Attualmente sto lavorando come tirocinante per la rivista Cina in Italia e come traduttrice di testi di letteratura cinese