Hacker, transgender e dal 2016 ministra (senza portafoglio) del digitale a Taiwan: Audrey Tang (classe 1981), inserita tra le dieci personalità più influenti nel mondo del digital government, già consulente di Apple e responsabile delle piattaforme innovative di quella che ha definito di recente «crowdsourcing democracy» a Taiwan, è stata ospite (in collegamento video) alla John Cabot University a Roma all’interno di una serie di incontri organizzati dal Department of Communications and Media Studies (il 26 novembre sarà la volta di Shu Lea Cheang, artista di Taiwan che ha collaborato con Paul B. Preciado alla Biennale a Venezia e con Audrey stessa; gli incontri sono organizzati da Donatella Della Ratta e Peter Sarram).
Parlantina rapida e schietta, Audrey è apparsa su uno schermo mentre alle sue spalle scorrevano le domande con cui ha introdotto i suoi tanti argomenti in tema di trasparenza e programmi per rendere le amministrazioni più ricettive e funzionali, cui poi hanno fatto seguito quelle – in diretta – effettuate dagli studenti. I temi, naturalmente, erano tutti collegati alla sua esperienza e più in generale a tutto quanto riguarda rete e novità annesse, intelligenza artificiale, internet delle cose, singularity, argomenti sui quali Tang propone un approccio contro-intuitivo e in grado di ribaltare concetti dati per scontato o sciorinati spesso a caso perché considerati cool (come ad esempio la sua proposta di concepire «realtà virtuale», come «realtà condivisa» o «singularity» come «pluralità»).
When we see “virtual reality”, let’s make it a shared reality.
When we see “machine learning”, let’s make it collaborative learning.
When we see “user experience”, let’s make it about the human experience.
When we hear “the singularity is near”, let us remember: the Plurality is here
Audrey Tang, assurta alla notorietà grazie alle proteste che nel 2014 videro ampia parte di società civile di Taiwan opporsi a un trattato di libero commercio con la Cina, è sempre stata considerata una specie di genio (ha iniziato a programmare in Perl a 12 anni). Ma la sua proposta «tech-politica» rappresenta una particolarità in Asia, in grado di connettersi con esperienze simili anche in Europa, come le attività messe in campo da Francesca Bria a Barcellona durante il primo mandato da sindaca di Ada Colau. L’approccio di Tang è quello che in ambito geek si è sempre definito come reality hacking, ovvero utilizzare gli strumenti tecnologici per modificare non solo il mondo virtuale, ma pure quelle reale, benché all’interno di istituzioni democratiche già date.
Come ha raccontato di recente in un articolo sul New York Times nel quale ha presentato il suo approccio alla tecnologia applicata alla politica, «la democrazia migliora quando partecipano più persone. E la tecnologia digitale rimane uno dei modi migliori per aumentare la partecipazione – fintanto che il focus rimane sulla ricerca di un terreno comune e sulla creazione di consenso, non sulla divisione».
Questo miglioramento avviene attraverso diversi tool: vTaiwan (che sta per «Taiwan virtuale») riunisce rappresentanti dei settori pubblico, privato e sociale per discutere soluzioni politiche a problemi legati al digitale e all’economia. «Sebbene il governo, ha raccontato Tang, non sia obbligato ad ascoltare le raccomandazioni di vTaiwan (una politica che potrebbe presto cambiare), il lavoro del gruppo porta spesso ad azioni concrete». Ad esempio, le petizioni che ottengono una certa soglia di commenti e proposti obbligano i ministri del governo a rispondere. O ancora: solo una politica trasparente e partecipata, secondo Tang, permette di ridimensionare il fenomeno delle fake news, ad esempio.
Durante il suo intervento alla John Cabot University questi temi sono stati trattati con particolare attenzione alla trasparenza delle attività governative, così che ogni cittadino possa partecipare alla formazione delle norme, creando un vero ponte tra strumento, aperto, accessibile e utilizzabile anche da altri governi, e istituzioni.
Naturalmente, perché questo sia possibile, è necessario che ci sia, più di tutto, la volontà degli organi governativi (altrimenti, come ha ricordato Tang, avviene una sorta di trasparenza al contrario: lo Stato e il governo sanno tutto sui cittadini, ma non il contrario). «Queste piattaforme, ha spiegato Tang, permettono alla cittadinanza di interagire giorno per giorno, non una volta ogni tanto, con le istituzioni».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.