Crisi ucraina. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina la posizione del governo cinese si è dimostrata ondivaga. Fare un passo indietro equivarrebbe a rivelare la scarsa fiducia riposta nella Russia. Cadrebbe così una delle pietre angolari dell’ “ambiguità strategica con caratteristiche cinesi”, che Pechino ha utilizzato spesso nei negoziati con Washington.
Camicetta gialla e giacca blu. Di questi tempi, in Cina, anche l’abbinamento cromatico scelto dalla presentatrice della tv statale diventa oggetto di analisi. Ostentando in diretta nazionale i colori della bandiera ucraina, Pechino vuole implicitamente mostrare il suo sostegno a Kiev?
Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina la posizione del governo cinese si è dimostrata ondivaga. Come ribadito dal premier Li Keqiang e il ministro degli Esteri Wang Yi, “la Cina sostiene che la sovranità e l’integrità territoriale di tutti i paesi, inclusa l’Ucraina, devono essere rispettate”, “gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite devono essere pienamente osservati e le legittime preoccupazioni per la sicurezza di tutti i paesi devono essere prese sul serio”. La situazione è “sconcertante”, per questo la Cina promuove il raggiungimento di un “cessate il fuoco” e “una soluzione pacifica della crisi”. Nessuna condanna contro l’offensiva russa, che viene definita “operazione militare speciale”, secondo la vulgata del Cremlino.
E’ una dichiarazione che può voler dire tutto e niente. Tradotto dal linguaggio felpato della diplomazia cinese: Pechino riconosce il diritto dell’Ucraina di difendere la propria sovranità territoriale, ma ammette anche le legittime preoccupazioni di Mosca davanti all’avanzata della NATO verso Est. La NATO ha “un debito di sangue” nei confronti della Cina per aver bombardato l’ambasciata cinese in Yugoslavia nel 1999, ha ricordato recentemente la portavoce del ministero degli Esteri cinese.
Questa apparente contraddittorietà retorica si riverbera nel dibattito online, dove – nonostante la ferrea censura e la disinformazione filorussa cavalcata dai media statali cinesi – non sono mancati appelli alla pace e accuse contro Putin. In mandarino si dice “jiao cai liang zhi”: tenere il piede in due scarpe. La Cina lo fa piuttosto spesso.
Finora, infatti, il gigante asiatico ha mantenuto una posizione tutto sommato coerente con il passato. Come ai tempi dell’annessione della Crimea nel 2014, temendo un effetto domino nella regione autonoma dello Xinjiang, non ha riconosciuto ufficialmente le repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, ma si è astenuta dal votare contro Mosca in sede ONU. Ha inoltre condannato le sanzioni internazionali, criticandone gli effetti negativi sull’economia mondiale, così come ha fatto in merito alle misure punitive contro l’Iran e la Corea del Nord.
Perché tanta ambiguità?
Sperimentata l’occupazione imperialista, la guerra civile e la rivoluzione culturale, la Cina guarda con terrore al caos e all’instabilità. Tutt’oggi si attiene – più o meno fedelmente – al comandamento della non ingerenza negli affari interni degli altri paesi, uno dei 5 principi di coesistenza pacifica abbracciati all’epoca di Mao. Mantiene quindi un approccio evasivo in politica estera, insistendo sulla risoluzione diplomatica dei conflitti.
Sostenere che Pechino appoggi l’operazione russa in virtù delle sue personali rivendicazioni su Taiwan è piuttosto azzardato. Probabilmente, la Cina sta osservando con attenzione la risposta di Kiev e dell’Occidente. Ma la posta in palio è troppo alta per tifare guerra. L’Ucraina è un importante tassello della Belt and Road Initiative, progetto con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende cinesi e dei suoi standard industriali investendo massicciamente nelle infrastrutture euroasiatiche. La Russia, invece, è uno dei principali fornitori di gas, petrolio e prodotti agricoli. L’introduzione delle sanzioni è già costata alla Cina una riduzione dei commerci bilaterali, dopo il picco di 26,4 miliardi di dollari raggiunto nel periodo gennaio-febbraio, la cifra più alta dal 2010.
Si ha quindi la sensazione – come dimostra il tardivo rimpatrio dei cittadini cinesi dall’Ucraina – che negli scorsi mesi Pechino abbia sottovalutato la minaccia militare di Mosca, malgrado gli avvertimenti degli Stati uniti. Che quindi, dopo aver creduto per giorni alle intenzioni pacifiche dell’amico Putin, la Cina ora non sia in grado di fare ufficialmente un passo indietro senza compromettere la propria reputazione. Innanzitutto per un fatto di orgoglio: vorrebbe dire riconoscere l’inadeguatezza dell’intelligence cinese e la superiorità dei servizi statunitensi.
In secondo luogo, equivarrebbe a rivelare la scarsa fiducia riposta nella Russia. Cadrebbe così una delle pietre angolari dell’ “ambiguità strategica con caratteristiche cinesi”. Come avvenuto anche con la Corea del Nord, Pechino per anni ha strumentalizzato il presunto controllo sui “regimi canaglia” nei negoziati commerciali con Washington. Ma né Kim Jong-un né Putin hanno dimostrato – pur dipendendo economicamente dalla Cina – di curarsi dei rischi per gli interessi cinesi, né di temere ripercussioni politiche per le relazioni bilaterali. In questo gioco delle parti la pedina russa è anche più importante.
Nemici al tempo della Guerra Fredda, solo nel 2008 Pechino e Mosca hanno risolto gli storici contenziosi di confine. I due giganti hanno ripreso rapporti stretti dopo l’invasione della Crimea, soprattutto in virtù dell’amicizia personale tra Putin e il presidente cinese Xi Jinping, accomunati da una visione machista del potere. A margine delle Olimpiadi invernali di Pechino, i due uomini forti hanno elevato le relazioni bilaterali a “partnership senza limiti”.
La Cina si trova quindi nella difficile posizione di dover contemporaneamente difendere i propri interessi economici in Ucraina, mantenere fede alla politica della non ingerenza, e tutelare le relazioni con la Russia, uno dei pochi paesi influenti a livello internazionale con cui è riuscita a mantenere rapporti cordiali.
Da anni il gigante asiatico vive una fase di isolamento, acuita dalla politica di contenimento americana. Se l’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha fatto precipitare verticalmente le relazioni con Washington, la ricostruzione delle alleanze asiatiche e transatlantiche sotto Biden ha spostato lo scontro dal piano commerciale a quello ideologico. In questo contesto di crescente emarginazione in Occidente, Pechino ha trovato nella Russia un partner strategico. Negli ultimi tempi le due parti si sono rese promotrici di un nuovo ordine mondiale, invocando una “democratizzazione delle relazioni internazionali” basata sui valori di “eguaglianza e inclusività”. Un messaggio che strizza l’occhio alle autocrazie del Sud globale, sempre più escluse dai sodalizi occidentali tra “like-minded countries”.
Dietro l’impalcatura retorica, però, si intravedono non poche crepe. Le relazioni bilaterali restano fortemente sbilanciate. Mentre Mosca mal tollera la superiorità economica cinese, da parte sua la Cina non si fida completamente del vecchio nemico e teme che l’espansionismo russo raggiunga l’Asia centrale, il proprio cortile di casa. Ma si fida anche meno degli Stati uniti. Recentemente la stampa statale ha citato le “bugie” disseminate da Washington per “i propri fini egemonici”, dalle armi di distruzione di massa in Iraq alla teoria del virus sfuggito dal laboratorio di Wuhan. Non è un caso che dall’inizio della guerra in Ucraina le offerte di una mediazione cinese siano state ripetutamente rivolte all’Unione europea, anziché agli Stati uniti.
Un’altra possibile spiegazione all’ambivalenza cinese è che all’interno della dirigenza comunista non ci sia coesione sulla direzione da intraprendere. Secondo fonti del Wall Street Journal, a inizio febbraio i sette potenti del comitato permanente del politburo, il ghota del Pcc, sono spariti per giorni dai riflettori proprio per discutere della crisi ucraina. C’è chi ritiene che la liaison tra Xi e Putin sia il vero motivo della mancata condanna dell’invasione. Se così fosse – azzardano alcuni analisti – non è escluso che il presidente cinese si stia giocando un terzo controverso mandato al Congresso del prossimo autunno. In quest’ottica, l’inclinazione smaccatamente filorusso della narrazione ufficiale potrebbe quindi servire a difendere la legittimità del leader in vista del delicato consesso.
La Cina ha poche alternative per togliersi dall’impiccio senza compromettere la propria immagine internazionale o senza dover rinunciare al partenariato strategico con Mosca: può solo provare a mediare. Ma farlo davvero. Non è la prima volta che Pechino offre il proprio supporto nei dossier internazionali. Lo ha fatto in varie circostanze – lo scorso anno durante il conflitto israelo-palestinese – senza dare seguito ai fatti. Il motivo va attribuito alla natura ancora fortemente “sinocentrica” della politica estera cinese.
Pur descrivendosi come uno stakeholder responsabile, solo raramente il gigante asiatico assume posizioni forti ai tavoli multilaterali, a meno che non sia convolto direttamente. Anche stavolta gettato il sasso Pechino sembra aver già ritirato la mano. Parlando con Di Maio, Wang Yi ha dichiarato che, sì, la Cina “continuerà a cercare la pace”, ma che la crisi ucraina è “una questione di sicurezza europea” e che pertanto spetta all’Europa di “condurre discussioni approfondite e complete con la parte russa “. Riferimento piccato alle interferenze americane, ma anche un chiaro tentativo di disimpegno. Un’altra occasione persa? Nel Vecchio Continente, dove Pechino socializza in chiave anti-americana, le aspettative sono rasoterra. La stessa disillusione ha raggiunto il Sud del mondo. Qui l’ossessione per la sovranità nazionale è sempre stata uno degli aspetti più apprezzati della politica cinese. Ora l’inerzia dimostrata davanti all’assedio russo rischia di suscitare qualche ripensamento nelle capitali africane e dell’America latina.
Nella girandola di speculazioni, una cosa è certa: la guerra in Ucraina costituisce un cruciale banco di prova per la diplomazia cinese. Con la sua “ambiguità strategica”, Pechino non si gioca solo risorse energetiche e contratti infrastrutturali. Si gioca la leadership mondiale.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Esquire]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.