Dopo sei anni di governo, le linee direttrici del pensiero di Xi Jinping, ormai ben definite sul piano ideologico, si riverberano sempre più chiaramente anche sull’ordinamento giuridico cinese e sulle sue tendenze evolutive.
Le principali di esse sono state formalizzate con l’ultima importantissima revisione costituzionale, approvata nel marzo dell’anno scorso dal parlamento cinese con la schiacciante maggioranza di 2.958 voti favorevoli, due contrari e tre astenuti (più sedici assenze e un voto nullo).
Già il risultato della votazione, particolarmente compatto persino per gli standard plebiscitari cinesi, rimanda l’immagine di un’assemblea meccanicamente obbediente alla volontà del partito comunista e svuota di significato il requisito della maggioranza qualificata dei due terzi dei deputati previsto per le modifiche costituzionali, ricordandoci che in Cina la Costituzione – già sistematicamente ridotta a un ruolo meramente programmatico dall’assenza di un controllo di costituzionalità delle leggi – è intesa come uno strumento di indirizzo politico nelle mani del Partito più che non come la Carta contenente le regole e i valori condivisi di una nazione.
Si tratta tuttavia di un documento di grande importanza simbolica, che dalla sua entrata in vigore (1982) era stato già modificato quattro volte per adattarlo all’evoluzione socioeconomica in atto ed è proprio per questo che il presidente Xi ha voluto che i principi fondamentali della sua concezione del «socialismo dalle caratteristiche cinesi per una nuova era» vi fossero formalmente riconosciuti.
La prima linea direttrice del governo di Xi individuabile nella revisione costituzionale dell’anno scorso è una forte spinta all’accentramento dei poteri nelle mani del presidente stesso e alla sua ascensione al ruolo di padre ispiratore della nuova Cina. E infatti, il suo pensiero viene espressamente inserito nel testo della Costituzione tra i principi fondamentali della Repubblica Popolare e vengono anche riprese diverse delle locuzioni che caratterizzano la sua leadership, dalla «grande rinascita della nazione cinese» alla «comunanza del destino del genere umano» che deve indirizzare la strategia di apertura della Cina al mondo.
D’altra parte viene rafforzata la sua carica, grazie alla modifica che ha avuto più risalto sulla stampa e nell’opinione pubblica occidentali, ossia l’abolizione del limite massimo dei due mandati per le cariche di Presidente della Repubblica e di Vicepresidente, voluto da Deng Xiaoping proprio per evitare la concentrazione di un eccessivo potere. Si tratta di un intervento che contribuisce a rafforzare la carica del Presidente e fornisce operativamente a Xi Jinping una prospettiva di lavoro di lungo termine, ma è soprattutto un atto di valenza simbolica.
Si deve infatti ricordare che la Cina non è una repubblica presidenziale e il Presidente riveste un ruolo largamente formale: l’abolizione del limite dei due mandati non è stata affiancata da altri interventi che estendano o rafforzino i poteri presidenziali e non si è dunque di fronte, almeno per il momento, ad alcuna «deriva presidenzialistica».
Ciò per il semplice motivo che il potere politico del Presidente cinese non deriva tanto dal suo ruolo nelle istituzioni statali, ma da quello che egli al contempo riveste all’interno del partito comunista, ossia quello di segretario generale. È dal 1993 che una consuetudine costituzionale prevede che la presidenza della Repubblica sia affidata al segretario generale del Partito, a rappresentare la continuità partito-stato, o meglio, la subordinazione di fatto degli organi dello stato a quelli del Partito.
Quella della riaffermazione della supremazia del partito comunista sull’amministrazione statale è un’altra delle direttrici fondamentali del pensiero di Xi Jinping e infatti nella modifica costituzionale viene ribadita con una forza senza precedenti: all’art. 1, dopo all’affermazione che «Il sistema socialista è il sistema fondamentale della Repubblica Popolare Cinese» viene aggiunta la frase: «L’elemento più distintivo del socialismo dalle caratteristiche cinesi è la guida del partito comunista cinese».
L’enunciazione di per sé non costituisce certo un elemento di novità o di sorpresa: il ruolo guida del partito comunista è una delle basi ideologiche e organizzative fondamentali della Repubblica Popolare dalla sua fondazione ed era anche già espressamente menzionato nel Preambolo della Costituzione del 1982. Ma una cosa è una generica menzione in un preambolo, un’altra è che il «ruolo guida» del Partito torni ad apparire nel testo costituzionale vero e proprio dopo quasi quarant’anni.
Sebbene non comporti alcun cambiamento sotto il profilo istituzionale, la novità è molto significativa dal punto di vista ideologico, attribuendo al Partito un ruolo in qualche modo sovra-costituzionale e rendendo di conseguenza illecita qualsiasi ipotesi di sovvertimento di tale ruolo: in altri termini, questa revisione sembra chiudere definitivamente la porta a qualunque prospettiva di sviluppo del sistema politico cinese verso un modello multipartitico o comunque nel senso di un maggiore pluralismo politico.
Ma vi è una terza direttrice del diritto cinese dell’era di Xi a essere istituzionalizzata nella revisione costituzionale del 2018, con un adattamento lessicale del Preambolo, ma soprattutto con un’importantissima riforma dell’organizzazione statale: quello dell’affermazione rigorosa del principio del «governo per mezzo della legge» (fazhi).
Il principio del governo per mezzo della legge è la versione cinese del principio di legalità, nel quale la legge non è intesa come un limite all’arbitrio della politica, ma piuttosto come uno degli strumenti della politica e i diritti non sono concepiti in senso assoluto, ma vengono protetti solo nella misura in cui coincidano con l’interesse pubblico: non una forma di rule of law dunque, ma piuttosto un rule by law dai colori cinesi.
A fondamento di questa nozione di legalità è posto il principio dell’unità dei poteri statali: non vi si riconosce il principio della separazione dei poteri, ma solo una separazione funzionale, e sia il legislatore, sia l’amministratore, sia il giudice sono in definitiva guidati dal Partito, che li utilizza come strumenti tecnici per realizzare le sue politiche.
Non è stato Xi Jinping il primo a sostenere tale concezione dello stato e del diritto, ma certo il suo governo ne ha fatto un uso diverso da quelli precedenti; prima di lui vi erano margini di flessibilità e tolleranza molto ampi, un po’ perché il sistema giuridico in generale era più arretrato e l’apparato normativo più incompleto e frammentato, un po’ perché comunque le leggi trovavano in sede applicativa enormi resistenze da parte dei localismi, dei clientelismi e delle corruttele che di fatto governavano i rapporti economici e politici.
Con l’ascesa di Xi il quadro è completamente cambiato: il Presidente ha fatto della lotta spietata alla corruzione e al clientelismo la cifra del suo successo sin dall’inizio del suo mandato, chiudendo repentinamente e con durezza l’epoca del mercato grigio, dell’illegalità diffusa e della tolleranza verso il malaffare. Oggi il «governo per mezzo della legge» si fonda su un apparato normativo sofisticato, sistematicamente pianificato dal Partito e acriticamente adottato dal legislatore e su un uso sapiente e in qualche modo sfrenato delle nuove tecnologie, come dimostrano le prime sperimentazioni sull’intelligenza artificiale applicata ai processi penali e sul sistema di credito sociale che dovrà essere finalizzato nei prossimi anni.
Sotto il profilo dei rapporti civili, «governo per mezzo della legge» significa che il sistema muove verso una maggiore stabilità e certezza delle regole, come emblematicamente dimostra la prevista emanazione, nel 2020, di un codice civile unitario, il primo della storia della Cina popolare. Stabilità e certezza anche per la loro applicazione giudiziale, che viene rapidamente uniformata, ad esempio attraverso la selezione dei precedenti, e che è resa sempre più efficiente da un uso pervasivo delle nuove tecnologie.
Anche nel diritto penale il sistema di controllo e la durezza della repressione ottengono risultati considerati eccellenti nella lotta alla corruzione, in quella ai separatismi (primo tra i quali quello uiguro) o alla criminalità organizzata e tendono a essere utilizzati estensivamente in tutti i campi, anche nella repressione degli “abusi” commessi nell’esercizio delle più varie libertà politiche, che sono sì garantite dalla Costituzione, ma solo nella misura in cui non contrastino con un non precisamente definito «interesse pubblico».
Tuttavia, il principio dell’unità dei poteri dello stato tende a determinare una serie di problemi operativi importanti, che rischiano continuamente di minare l’efficienza della macchina e che derivano principalmente dalla dipendenza del personale giudiziario agli organi politici: ogni procuratore e ogni giudice risponde del suo operato non solo ai propri superiori gerarchici, ma anche agli organi politici di pari livello e in determinate circostanze il suo lavoro può essere ostacolato dal conflitto tra le istruzioni centrali e gli interessi specifici dei dirigenti locali.
La tradizionale difficoltà del sistema a combattere la corruzione derivava soprattutto da tale conflitto e, proprio per questo, nella campagna lanciata immediatamente dopo la sua elezione, Xi Jinping ha spesso evitato di fare uso della magistratura ordinaria, preferendo avvalersi delle commissioni disciplinari del Partito e di organi «ispettivi» istituiti ad hoc.
Nella logica giuridica occidentale, è l’interazione tra poteri indipendenti, o quanto meno separati da un sistema di checks and balances, a garantire un funzionamento equilibrato dell’apparato giuridico. Lo stile cinese però è diverso: per ovviare al problema delle perturbazioni nell’applicazione delle direttive politiche, sulla scorta dei successi ottenuti nella campagna contro la corruzione è stata deciso l’istituzione di un nuovo organo centralizzato di controllo.
Viene dunque introdotto nella Costituzione un apparato di organi di controllo al cui vertice è posta la Commissione Nazionale di Supervisione, un nuovo organo costituzionale e un nuovo potere dello Stato, in qualche modo parallelo ai tre poteri tradizionali. La Commissione e le sue diramazioni locali sono state organizzate come un calco delle temutissime commissioni disciplinari del Partito, realizzando in tal modo un’estensione del sistema disciplinare interno al Partito all’amministrazione statale.
Alla Commissione Nazionale e alle sue diramazioni locali è affidato il controllo della pubblica amministrazione cinese, intesa nel senso più ampio. La legge le attribuisce amplissimi poteri di sorveglianza, ispezione, indagine e sanzione su tutti i funzionari pubblici, tra i quali sono espressamente menzionati i membri del Partito, i deputati di tutte le assemblee popolari, i membri del governo centrale e di quelli locali, i giudici e i procuratori, i dirigenti delle imprese statali, gli insegnanti e svariate altre categorie di soggetti.
In caso di «seri illeciti» o di reati commessi dai funzionari nell’esercizio delle loro funzioni, le commissioni di supervisione hanno il potere di emettere direttamente ordini di custodia cautelare (fino a un massimo di sei mesi), di perquisizione e di sequestro, in una procedura indipendente da quella giudiziaria che può condurre all’irrogazione di sanzioni dirette o alla trasmissione degli atti alla procura del popolo.
I poteri attribuiti alla nuova, potentissima burocrazia, erano già in parte previsti dall’ordinamento giuridico cinese (ad esempio la custodia amministrativa non è una novità), ma sono stati estesi e concentrati in un unico apparato, che pur essendo formalmente subordinato al parlamento, sarà sostanzialmente responsabile del suo operato solo verso il Partito: non è evidentemente un caso se le commissioni di supervisione ai vari livelli condividono risorse e attività con gli organi disciplinari del Partito stesso.
L’istituzione delle commissioni di supervisione nell’ordinamento giuridico cinese e il loro inserimento tra gli organi costituzionali è una novità di assoluto rilievo, che corona il progetto anticorruzione di Xi Jinping ponendo tuttavia anche grandi interrogativi sulla natura di tali nuovi organi, sul raccordo tra la loro attività e quella giudiziaria, sui limiti nei quali si debba svolgere la loro attività e su chi la controlli.
Certo è che questa riforma allontana ancora di più la Cina dal modello organizzativo degli stati liberal-democratici per riprendere l’antica tradizione del Censorato imperiale, declinata un secolo fa in quella particolare versione del principio di separazione dei poteri elaborata da Sun Yat-sen in cui, oltre ai tre poteri tradizionali, si aggiungevano quello «dei concorsi», ossia quello competente per la selezione dei pubblici funzionari, e quello, appunto «di controllo» della pubblica amministrazione.
Anche in questo campo la Cina sembra intenzionata a ridurre la propria dipendenza dai modelli esteri per riscoprire e valorizzare le propria tradizione nazionale.
Di Renzo Cavalieri*
*Professore di Diritto dell’Asia Orientale presso l’Università Ca’ Foscari Venezia.
[Pubblicato su il manifesto]