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La corte europea dei diritti dell’uomo ferma estradizione in Cina

In Cina, Relazioni Internazionali by Alessandra Colarizi

Il 6 ottobre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha bloccato un procedimento di estradizione avviato dalla Cina nei confronti di Liu Hongtao, cittadino taiwanese accusato di aver ordito una frode internazionale ai danni di cittadini cinesi mentre si trovava in Spagna. Definita “storica”, la sentenza crea un precedente essendo il primo caso di estradizione verso la Repubblica popolare a raggiungere il tribunale di Strasburgo.

Fuggito in Polonia, Liu era stato arrestato nell’agosto 2017 su richiesta di Pechino e del governo spagnolo. La sua estradizione, approvata dalle autorità giudiziarie polacche – inclusa la Corte Suprema – sarebbe dovuta avvenire ben tre anni fa, quando altri 94 taiwanesi trattenuti per lo stesso reato furono spediti in Cina. Un caso che seminò ulteriore zizzania tra Pechino e Taipei, con cui Madrid non ha rapporti diplomatici ufficiali, e che all’epoca stava affrontando un crescente isolamento internazionale a causa del pressing cinese.

Temendo di fare la stessa fine dei connazionali, l’uomo aveva contestato la decisione di Varsavia spiegando che, considerata la scarsa trasparenza del sistema giudiziario cinese, una sua consegna alle autorità cinesi avrebbe violato la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; soprattutto gli articoli 3 e 6 in merito alla tortura e al diritto a un giusto processo. Rischio che, dopo un annoso iter giudiziario, la CEDU ha riconosciuto essere fondato. E non solo nel caso di Liu.

Definendo “credibile” “l’utilizzo di tortura e altre forme di maltrattamento nelle strutture di detenzione e nei penitenziari cinesi”, la sentenza certifica una “situazione generale di violenza”. Questo vuol dire che, considerando le rassicurazioni fornite dallo Stato richiedente non convincenti – anche a causa della pressoché inesistente cooperazione di Pechino con gli organismi delle Nazioni Unite (in particolare con il Comitato contro la Tortura) – il tribunale di Strasburgo stabilisce che chiunque potrebbe incorrere in un rischio reale di maltrattamenti se estradato in Cina.

L’altro aspetto rilevante, come evidenzia l’Ong Safeguard Defenders (tra i pochi ad aver dato visibilità alla notizia), è l’assenza di una potenziale situazione di pregiudizio specifico, in quanto il ricorrente non appartiene ad alcuna categoria a rischio: non è un dissidente politico, né fa parte di una minoranza religiosa o etnica perseguitata.

Il verdetto è quindi destinato a guidare gli organi giudiziari di tutti paesi sottoscrittori della CEDU, strumento giudiziario internazionale giuridicamente vincolante per tutti gli stati europei (eccetto Bielorussia e Russia), ogni qualvolta venga presentata una richiesta di estradizione verso la Repubblica popolare. Sono una decina le nazioni europee ad aver sottoscritto trattati di estradizione con la Cina.

Come spiega Angelo Stirone, esperto di diritto penale europeo e internazionale, nonché docente in International and European Criminal Law presso l’Università di Bologna, si tratta di una decisione che quindi “potrebbe, perlomeno nel breve periodo, cambiare le sorti delle procedure di estradizione per la Cina instaurate nei 46 Paesi del Consiglio d’Europa”, destabilizzandone il funzionamento. Stirone specifica che conta, innanzitutto, la “decisione unanime dei Giudici di Strasburgo di dare priorità alla tutela dei diritti dell’estradando piuttosto che al corretto funzionamento dei meccanismi di cooperazione internazionale e mutua assistenza, che pure – come è noto – sovente hanno preso il sopravvento, soprattutto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in tema di mandato d’arresto europeo.”

Il giudizio del tribunale europeo è stato accolto con sollievo dai gruppi per la difesa dei diritti umani, per quanto tardivo. Nel 2014 la Cina ha avviato una campagna di rimpatrio forzato, nota come Fox Hunt, volta ufficialmente a consegnare i corrotti nelle mani della giustizia. Da allora oltre 10000 persone da tutto il mondo sono state rispedite indietro su richiesta di Pechino. Un caso – il primo in una nazione Ue – ha coinvolto anche l’Italia, che nel 2015 ha consegnato alle autorità cinesi un’imprenditrice rifugiata nel Belpaese dal 2005 e accusata di frode economica.

Va detto però che, secondo Safeguard Defenders, la maggior parte dei rimpatri avviene in realtà attraverso canali informali; quindi all’insaputa dei paesi da cui vengono prelevati i fuggiaschi. Stando a un precedente studio dell’Ong, nel 2018, il 64% dei casi ha previsto l’utilizzo di metodi coercitivi. Se confermata, la ricerca dimostrerebbe la sostanziale irrilevanza dei trattati di estradizione, di scarsa utilità anche nella tutela dei paesi firmatari. Secondo il report, infatti, circa il 19% delle catture attraverso l’intervento diretto di agenti cinesi in territorio straniero è avvenuto in paesi che avevano sottoscritto (e ratificato) accordi di cooperazione bilaterale.

Alcuni mesi fa, gli Stati Uniti hanno formalizzato accuse penali contro sette cittadini cinesi, sospettati di aver condotto operazioni di intimidazione e sorveglianza contro un connazionale residente nel paese e la sua famiglia. Dall’inizio di dicembre diversi governi occidentali hanno avviato indagini per appurare lo scopo di centinaia di presunte “stazioni di polizia”, che si dice siano state istituite clandestinamente dal ministero della Pubblica Sicurezza cinese in 53 paesi. 11 sono in Italia.

L’accuratezza delle informazioni è stata contestata da vari esperti. Intervistato dall’Agi, il professor Daniele Brigadoi Cologna, che dal 1995 si dedica professionalmente alla ricerca sociale applicata nel campo degli studi migratori, ha ridimensionato il ruolo dei centri – esistenti fin dal 2010 – nel sistema di sorveglianza cinese. Secondo l’esperto, mentre tali uffici hanno funzioni prettamente amministrative (non di polizia), il vero fattore preoccupante risiede piuttosto nella crescente integrazione della diaspora nel sistema per la raccolta dei dati digitali: “Il governo cinese ha fatto in modo che i cittadini all’estero potessero accedere ai portali del paese d’origine per avere informazioni pratiche, una circostanza accolta di buon grado dai cinesi” rimasti bloccati lontano da casa per via della pandemia. Secondo Brigadoi Cologna, tuttavia, occorre capire se così facendo “la sovranità digitale del nostro paese è violata e si configurano aspetti contrari alla privacy.”

Che fine fanno i dati acquisiti? C’entrano nulla i rimpatri forzati? “Il mio personale sospetto – spiega il docente a Gariwo – è che queste forme di integrazione operativa tra Partito-Stato e diaspora non siano del tutto innocue, per il semplice fatto che rendono organici i contatti tra l’apparato di controllo sociale della Repubblica popolare e i suoi cittadini all’estero, in modalità e misura che andrebbe studiata e compresa meglio.” Per Brigadoi Cologna, sarebbe quindi auspicabile “un monitoraggio più attento di questi processi da parte delle istituzioni italiane, svolto senza parossismi allarmistici e xenofobi – come purtroppo si è invece evinto da molte narrazioni mediatiche nostrane – e con la consapevolezza che si tratta qui di salvaguardare in primis i diritti di cui godono i cittadini stranieri sul suolo italiano, più che di tutelare la sicurezza del nostro paese dallo ‘spionaggio cinese’. Che ha ben altri mezzi a sua disposizione.”

Sono tutte questioni che vanno considerate per poter valutare il reale impatto della sentenza di Strasburgo.

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su Gariwo]