Mentre i numeri della protesta si assottigliano e la polizia comincia a rimuovere le barricate erette nelle ultime settimane, il governo di Hong Kong annulla le trattative con la Federazione degli Studenti e gruppi anti-Occupy fanno la voce grossa (passando talvolta alle vie di fatto). Il movimento è sotto pressione e reagisce con le sue armi: non violenza e disobbedienza civile. Ma al suo interno c’è una contraddizione. “Non ci scontreremo fisicamente con la polizia”. Così hanno dichiarato gli studenti, dopo che gli agenti hanno cominciato a smontare le barricate erette nelle ultime settimane. Sono centinaia i poliziotti che questa mattina sono scesi nelle strade per rimuovere i blocchi stradali. Ieri si era quasi arrivato allo scontro fisico tra manifestanti Occupy e anti-Occupy, sempre più vocianti, sempre più aggressivi.
Sono molte le categorie che dichiarano di risentire economicamente della crisi. Prima di tutto i tassisti, che minacciano soluzione più violente se le strade non saranno sgombrate entro domani. Nel frattempo, gli studenti hanno bloccato gli uffici centrali della Bank of China e quelli dell’uomo più ricco dell’Asia, Li Kai-shing, mentre gli anti-Occupy hanno impedito per due giorni la distribuzione del quotidiano Apple Daily, che appartiene al magnate Jimmy Lai, da sempre a favore del movimento.
Con Sophia Chan, attivista del gruppo Left 21 e ricercatrice universitaria, facciamo il punto su questa fase.
Il governo non parla con il movimento. Un commento.
Penso sia convinto che le proteste stiano calando di intensità. Nel frattempo, emergono gruppi che lo sostengono. Insomma, l’esecutivo percepisce che l’opinione pubblica è molto più divisa di una settimana fa, quando dominava l’indignazione per l’uso dei lacrimogeni da parte della polizia. Ritiene quindi di potersi sottrarre ai colloqui e di poter fare piazza pulita delle occupazioni nei prossimi giorni. La situazione è fluida e tutto può succedere.
Da un lato, ci sono parlamentari sia pan-democratici sia filogovernativi che stanno preparando una petizione al governo affinché apra a un vero negoziato, il che significa che anche all’interno della maggioranza c’è chi si chiede come mai ciò non avvenga.
Ma nel movimento ci sono divisioni, perché molti non si identificano nella leadership degli studenti. Così, il governo si sente molto più sicuro e potrebbe tentare un’azione di forza. Ci sono categorie che gli chiedono di rimuovere i blocchi entro il 15 ottobre. Per esempio i camionisti.
Per esempio i camionisti, che per altro non si capisce se siano filogovernativi o no. Ma comunque, questo fa pensare che il governo si senta legittimato – o stia addirittura creandosi la legittimazione – a reprimere il movimento.
Perché il 15 ottobre?
Non ne sono sicura, ma probabilmente perché è un mercoledì, a metà settimana, quindi la gente è presa dal lavoro o dalla scuola e ha più difficoltà a scendere in piazza.
Attualmente, quali sono i principali gruppi politici e le componenti sociali all’interno di Occupy?
Ci sono tre gruppi principali: La Federazione degli Studenti, espressione di diversi “sindacati” universitari; Scholarism, composto soprattutto dagli studenti medi, che è nato tre anni fa per protesta contro la cosiddetta “educazione nazionale” [il progetto voluto da Pechino di inserire corsi di “patriottismo” all’interno dei curriculum scolastici, ndr], vincendo, e conquistando così una grande popolarità; infine Occupy Central, iniziato da due professori e un leader religioso un anno e mezzo fa come risposta alla riforma elettorale voluta dal governo. A sostegno, c’è l’Alliance in Support of the Students Movement for Democracy, formata soprattutto da organizzazioni di base come Left 21, di cui faccio parte, la Confederation of Trade Unions, gruppi femminili, associazioni cristiane progressiste e così via.
Poi ci sono altri gruppi più politici che vanno nelle zone occupate a tenere discorsi . Sono formazioni del ceto medio, come il Partito democratico, quello socialdemocratico, People’s Power e Civic Passion. Gli ultimi due sono di destra e fanno breccia soprattutto tra i più giovani. È quindi rappresentato tutto lo spettro politico.
La composizione sociale corrisponde alle tre principali zone occupate. Mong Kok è in un’area popolare, quindi in quel concentramento ci sono soprattutto lavoratori e giovani non molto scolarizzati; ad Admiralty predominano ceto medio e impiegati; a Causeway Bay la composizione è mista.
Come coesistono, all’interno del movimento, i gruppi di destra – nazionalisti hongkonghesi che odiano gli “stranieri” – con gruppi che invece chiedono un allargamento dei diritti?
Bisogna fare un distinguo. Sebbene in People’s Power ci siano tendenze nazionaliste, non tutti i suoi membri sono tali. È un partito abbastanza moderato. Civic Passion invece è radicale, pro-discriminazione verso i cinesi del continente, diffonde odio. Non cooperano bene con l’ala democratica del movimento e infatti le varie componenti non appaiono quasi mai contemporaneamente sul palco. Il movimento è in effetti molto decentralizzato: se vuoi dire o fare qualcosa, basta che vai lì e lo dici o fai. A questo punto, la decentralizzazione sta però diventando un problema perché impedisce di attuare una strategia comune. E diventerà sempre peggio, se non si trova un terreno di intesa.
Sembra che gli studenti abbiano preso la leadership. È possibile leggere le loro richieste, al di là dell’ideale democratico, in termini più sociali? Mi riferisco a loro come lavoro vivo del futuro.
Sì, anche se non emerge dalle rivendicazioni attuali. Il punto è che un’eventuale elezione diretta a suffragio universale del Chief Executive impedirebbe ai grandi interessi economici di controllare il processo decisionale, come è invece successo finora.
Per esempio, i grandi tycoon del settore immobiliare hanno da sempre spadroneggiato a Hong Kong, monopolizzando anche altri settori come le telecomunicazioni, proprio in virtù di questo sistema politico che permette loro di controllare sia la commissione elettorale di 1200 membri che nomina il Chief Executive, sia il LegCo, cioè il parlamento.
Giusto per capire di cosa stiamo parlando, può fare un elenco dei maggiori problemi sociali di Hong Kong?
Senz’altro l’altissimo prezzo degli immobili. Molti di noi possono anche lavorare finché vogliono, ma non riusciranno mai permettersi un appartamento, il che significa un matrimonio e una famiglia. Molta gente vive in affitto nelle cosiddette “cage homes”. Il governo costruisce nuovi alloggi nei New Territories, ma siccome sta con i grandi interessi economici, edifica pochissime case a prezzi accessibili e regala il resto a grandi compagnie che fanno appartamenti di lusso.
Un altra problema è il sistema sanitario. Ci sono tanti cinesi continentali che vengono qui per accedere a migliori servizi, donne che vengono apposta per partorire, così i figli avranno la cittadinanza di Hong Kong, cioè accesso a una migliore educazione e così via. Il che è percepito come una minaccia ai propri, di benefici.
Poi c’è l’educazione che viene sempre più privatizzata e che d’altra parte è sempre meno riconosciuta come valore aggiunto dai datori di lavoro. Così i giovani spendono tanto per istruirsi ma non hanno garanzie di una buona occupazione in futuro.
Poi a margine c’è l’aumento dei prezzi alimentari senza che i salari tengano il passo. Quindi la gente fa i miracoli per arrivare alla fine del mese. Questo, oltre a preoccupazione, genera rabbia.
Il ceto medio può far pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra, nel conflitto tra governo e movimento?
È fondamentale, perché la perdita di affari a causa delle proteste può essere usata a pretesto per la repressione del movimento.
Credo che da un lato noi dobbiamo dare una risposta a queste preoccupazioni, soprattutto nel caso dei piccoli negozianti, a cui non possiamo chiedere un sacrificio eccessivo.
Ma d’altra parte spero che quello stesso ceto medio che fa sacrifici per mandare i figli a studiare all’estero, visto che a Hong Kong il sistema scolastico sta peggiorando, capisca che il movimento fa anche i suoi interessi. Qualche segnale in questo senso c’è già, visto che abbiamo avuto l’appoggio di avvocati e addirittura banchieri. Ma d’altra parte è molto importante riuscire a organizzare anche uno sciopero generale della classe operaia, come i portuali, perché finora il movimento è dipinto principalmente come studentesco e, invece, uno sciopero del genere avrebbe un grosso impatto sul governo.
Mung Siu-Tat, il leader dil sindacato indipendente, ci ha detto che gli appelli allo sciopero generale non hanno avuto successo.
Sì, non c’è la percezione che il tema della democrazia sia strettamente legato alla possibilità di cambiare la propria vita concreta, perché gli organizzatori del movimento hanno fatto appello a valori degnissimi, ma piuttosto elevati per la gente a cui preme soprattutto che la propria famiglia arrivi alla fine del mese: giustizia, uguaglianza. Finché il movimento non riesce a entrare in questioni più materiali, la vedo difficile. Quello che Left 21 sta cercando di fare è di spiegare alla gente quanto il movimento c’entri con la loro vita di tutti i giorni; ma è difficile, perché la natura decentralizzata di Occupy fa sì che chiunque cerchi di esporre un programma venga accusato di “leaderismo”. Sta diventando un circolo vizioso, perché non si riesce a far vedere i benefici concreti della democrazia.
Ho letto un articolo del South China Morning Post che parlava del concentramento di Mong Kok come di un ambiente proletario o sottoproletario, dove domina uno spirito lanzai, cioè da “cucciolo marcio”, termine assolutamente punk che significa ribellismo puro con una certa dose di nichilismo. Può aiutarci a capire l’ecosistema Mong Kok?
Mong Kok è maggiormente influenzato dai gruppi di destra a cui facevo riferimento, totalmente contrari all’idea di avere un leader. Non voglio fare nessuna congettura su cosa ci sia dietro, ma di fatto i manifestanti di quell’area pensano che ogni leader sia potenzialmente una spia e non hanno neanche voglia di stare lì a discutere, perché lo ritengono troppo “di sinistra” o inutile. Quindi, si impone chi è in grado di urlare di più in un dato momento. Per esempio, un paio di giorni fa c’era un gruppo di studenti che voleva proiettare un film sulla disobbedienza civile e stimolare una discussione; ma altri manifestanti sono arrivati e hanno cominciato a gridargli dietro, dicendo che quello non era un luogo di intrattenimento. Quindi, hanno interrotto la proiezione.
È una contraddizione per il movimento operaio: l’area più working class è in mano alla destra.
Non direi che la controllino, ogni gruppo è presente a Mong Kok. Il problema è che lì c’è gente che fomenta una parte dei manifestanti contro un’altra. Il movimento si è sviluppato così in fretta che non c’è nessuna componente dominante che possa evitare fenomeni del genere e creare una strategia comune. Tutti parlano per sé. A mio avviso questo sta diventando un problema, che impedisce l’unità del movimento.