Afghanistan: Secondo i dati raccolti dall’Uyghur Human Rights Project, organizzazione con sede a Washington, dal 1997 almeno 395 uiguri sono stati deportati, estradati o consegnati alle autorità cinesi. Della comunità afghana, tuttavia, si sa ben poco. Contattati da Gariwo, Darren Byler e James McMurray, due dei maggiori esperti di Xinjiang, hanno dichiarato di non avere informazioni sulla sorte degli uiguri sotto il governo talebano. La nostra analisi in collaborazione con Gariwo
“L’Emirato islamico dell’Afghanistan non consentirà a nessuno dei suoi membri, o a qualsiasi altro individuo o gruppo, inclusa al-Qaeda, di costituire una minaccia per la sicurezza di altri dal suolo afghano”. Così lo scorso agosto il ministro degli Esteri talebano, Amir Khan Muttaqi, rassicurava Pechino sulla stabilità nel paese dopo il ritiro americano. Cina e Afghanistan condividono 92 chilometri di confine. Da una parte c’è il corridoio del Wakhan, dall’altra il Xinjiang, la regione autonoma cinese, dove gli uiguri e le altre minoranze musulmane sono sottoposti a brutali politiche di assimilazione etnica e culturale. Pechino giustifica il pugno di ferro citando le storiche velleità separatiste della popolazione locale, e proprio agli uiguri attribuisce gli attacchi violenti avvenuti, tra il 2013 e il 2017, nel Xinjiang e in altre città cinesi. Come un po’ tutta l’Asia centrale, l’Afghanistan è stato a lungo meta di fuga dalla stretta al di là della frontiera. Tirare una linea tra perseguitati ed elementi radicalizzati non è semplice. Così spesso a pagare il prezzo è la gente comune.
L’Afghanistan, un’opportunità o un pericolo per la Cina?
La Cina non ha riconosciuto ufficialmente il governo talebano. Ma ha ugualmente manifestato l’intenzione di voler giocare un qualche ruolo nel paese, se non politico almeno economico. A gennaio la Xinjiang Central Asia Petroleum and Gas (CAPEIC) ha firmato un contratto della durata di 25 anni con il governo provvisorio talebano per l’esplorazione e l’estrazione di petrolio nelle regioni settentrionali. Con un valore iniziale di 150 milioni di dollari, si tratta del più importante investimento estero in Afghanistan dalla conquista dei talebani. Se sia il primo di una serie però è ancora tutto da vedere.
L’Emirato è una polveriera. Nell’ultimo anno Kabul ha registrato almeno una sparatoria o un’esplosione ogni settimana. Pechino vuole rassicurazioni concrete; le parole di Amir Khan Muttaqi non bastano. A preoccupare la leadership cinese è soprattutto Turkestan Islamic Party (TIP), gruppo militante uiguro nato dalle ceneri dell’ East Turkestan Islamic Movement (ETIM), la sigla separatista – supportata da Osama bin Laden – autrice di diversi attentati dinamitardi a Shanghai e Kunming, nei primi anni 2000. Come l’ETIM, anche il TIP ha per principale missione la liberazione del Xinjiang e del popolo uiguro dal giogo cinese. C’è stato un tempo, al volgere del secolo scorso, in cui i talebani – vinta la guerra civile afghana – hanno lasciato briglia sciolta ai gruppi uiguri presenti in Afghanistan. Tanto che si ritiene che il TIP abbia fatto parte di un’alleanza transnazionale di organizzazioni jihadiste, guidata da al-Qaeda, che ha permesso la riconquista talebana dell’Afghanistan nell’agosto 2021. Cosa sia successo esattamente ai guerriglieri uiguri però non è chiaro.
Con il peggioramento dei rapporti sino-americani, Washington ha rimosso l’ETIM dalla propria blacklist nel 2020. I talebani invece si mantengono sul filo dell’ambiguità. Appena ottenuto il potere pare che, su richiesta di Pechino, gli ex studenti coranici fossero riusciti ad allontanare i miliziani uiguri dalla frontiera condivisa. Ma poi, come attesta un recente rapporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il TIP avrebbe progressivamente “ricostruito diverse roccaforti nella provincia di Badakhshan [tra Cina, Afghanistan, e Tagikistan], ampliato la sua area di azione, e acquistato armi di nascosto con l’obiettivo di migliorare le proprie capacità terroristiche”. Secondo quanto conferma a Gariwo l’analista Raffaello Pantucci, autore di “Sinostan: China’s Inadvertent Empire”, l’arrivo dei talebani ha permesso una rimonta dell’irridentismo uiguro.
Un altro fattore di preoccupazione per Pechino è la rinascita dello Stato islamico nel paese. Acerrimo avversario dei talebani, il distaccamento locale dell’IS – lo Stato islamico del Khorasan (ISKP) – mal tollera il sostegno della Cina ai barbuti e ha rivendicato la propria paternità dell’attentato che a dicembre 2022 ha colpito un hotel di Kabul frequentato da imprenditori cinesi. A riprova di un avvicinamento al TIP, secondo il report dell’Onu, nell’ultimo anno l’ISKP è riuscito a reclutare circa 50 membri della sigla offrendo lauti compensi economici. Tanto che già nell’ottobre 2021 un guerrigliero uiguro figurava tra gli attentatori suicidi della moschea sciita di Kunduz.
I difficili rapporti tra talebani e uiguri
Malgrado gli storici rapporti tra l’ETIM/TIP e i talebani, gli uiguri generalmente non vedono di buon occhio gli ex studenti coranici, ritenuti “estremisti” secondo gli standard più permissivi dell’Islam praticato nel Xinjiang. La diffidenza è reciproca. Mentre i barbuti hanno più volte espresso il proprio supporto per i musulmani in Palestina, Pakistan e altre parti del mondo, mai hanno preso pubblicamente le difese degli uiguri. Nemmeno dopo le accuse americane di genocidio a carico di Pechino. Un silenzio che non sembra casuale. Ora il rischio è che gli uiguri – anche quelli che non hanno alcun legame con i gruppi terroristici (la maggior parte) – diventino merce di scambio con le autorità cinesi per ottenere nuovi investimenti e un possibile riconoscimento ufficiale. Non ci sono prove che questo stia già avvenendo. Ma nemmeno che non stia avvenendo, considerata la chiusura quasi ermetica dell’Emirato.
Si pensa che gli uiguri afghani siano circa 2.000. Molti vivono a Mazar-i-Sharif, la quarta città più grande del paese. Sono immigrati di seconda generazione, figli di quegli uiguri fuggiti dalla Cina decenni fa, prima che iniziasse l’ultima ondata repressiva. Per loro i campi per la rieducazione dello Xinjiang esistono solo nei racconti di parenti e conoscenti. Ma sui documenti d’identità sono ancora identificati come “uiguri” o “rifugiati cinesi”, fattore che li espone alle pressioni di Pechino.
La mancanza di informazioni e il “caso Guantanamo”
Secondo i dati raccolti dall’Uyghur Human Rights Project, organizzazione con sede a Washington, dal 1997 almeno 395 uiguri sono stati deportati, estradati o consegnati alle autorità cinesi. Della comunità afghana, tuttavia, si sa ben poco. Contattati da Gariwo, Darren Byler, Sean Roberts, e James McMurray, tre dei maggiori esperti di Xinjiang, hanno dichiarato di non avere informazioni sulla sorte degli uiguri sotto il governo talebano.
I precedenti però non sono confortanti. Nota alle cronache è la controversa vicenda dei ventidue fuggiaschi uiguri catturati tra Afghanistan e Pakistan nei primi anni Duemila mentre cercavano di raggiungere la Turchia. Finiti nelle maglie della “war on terror” di Bush sono poi stati internati a Guantanamo per dieci anni, dal 2002 al 2013, e bollati come jihadisti. Anche se nel 2009 i giudici federali americani avevano già stabilito che nessuno di loro aveva mai preso parte ad attività di combattimento a fianco dei talebani afghani, né tantomeno collaborato con al-Qaeda.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.