Oggigiorno mettersi in competizione con i cinesi sulla moda e il lusso sta diventando sempre più difficile, questo perché i brand di alta moda preferiscono mantenere una gestione centralizzata delle loro operazioni di marketing e comunicazione, mentre i clienti cinesi, che stanno guadagnando ‘visibilità’ grazie ai social e ad internet, chiedono che la loro voce venga ascoltata di più.
La crescita di clienti digitali e di nuove leve esperte di social trend è un qualcosa di recente per le maison europee del fashion. Storicamente riconosciute come icone di stile e di gusto, esse si sono affidate alla notorietà del design e alla loro traduzione per vendere sogni ai propri clienti. Deviare verso qualsiasi trend popolare o verso nuove tecnologie è sempre stato avvertito come un rischio capace di rovinare l’esclusività del settore. Ma oggi, questi principi retrogradi sono meno utili davanti alla clientela cinese, che entro il 2025 rappresenterà metà del mercato globale del lusso. Per stare al passo con il rapido cambiamento demografico della clientela, i brand hanno cercato di diventare più ‘appetibili’ agli occhi clienti cinesi. Il processo di sinizzazione (termine geopolitico per descrivere società non cinesi che sono state influenzate dalle norme cinesi Han) è diventato un approccio ‘normale’ per chi si interfaccia con la Cina.
In tempi odierni, è comune sentire dirigenti di una casa di moda a Parigi o Milano discutere di strategie per tenere una sessione live-streaming su piattaforme cinesi come Tmall, Red o Douyin, o lanciare una capsule collection dedicata ai clienti cinesi. Nessuna di queste iniziative sarebbe stata concepibile qualche anno fa, in un settore prettamente eurocentrico quanto a egemonia estetica e nel linguaggio culturale. C’è un enorme vuoto tra come i brand approcciano proattivamente la Cina, e come i clienti cinesi percepiscono tale sforzo. I brand progettano lo sviluppo dei prodotti, la comunicazione e la strategia dei canali di vendita per soddisfare al meglio i clienti cinesi attraverso un processo di sinizzazione che ha trasformato le modalità di penetrazione del mercato cinese negli ultimi 10 anni.
Anni fa sarebbe stato impensabile per un’etichetta ‘haute couture’ provare interesse per una video-community Gen Z di un paese emergente. Oggi invece, brand come Gucci e Dior stanno coinvolgendo attivamente generazioni di giovani sul sito di video-sharing Bilibili. Le tante capsule collection ‘China-edition’ sono un’altra tattica utilizzata dai brand per dimostrare il loro interesse nei confronti dei clienti cinesi. Però, nonostante i vari tentativi, la comunità cinese trova ‘problematica’ questa “cinesità”. Alcuni recenti ‘passi falsi’ a livello culturale mostrano come i brand stiano procedendo lungo una linea sottile a metà tra un’attitudine per così dire ‘post-coloniale’, focalizzata perlopiù sul passato, e un’eccessiva accondiscendenza verso la Cina moderna. Quindi le mosse dei marchi occidentali, da un punto di vista culturale, seppur fatte con le migliori intenzioni, sono recepite come sbagliate, e mettono in mostra un forte gap empatico tra diverse culture.
Andando più a fondo, i clienti cinesi sono contrariati dalla mancanza di sforzi fatti dalle varie aziende. In particolare Pooky Lee, creatore di @ExhibitingFashion, nonché critico di moda molto influente su Weibo, è convinto “che i clienti cinesi non vogliano una certa interpretazione della “cinesità” ‘. Ciò che conta davvero è che il brand sia davvero interessato alla cultura dei suoi clienti, piuttosto che al prodotto finale”. Purtroppo le iniziative volte a corteggiare la Cina suscitano risposte negative, e finiscono per mostrare stereotipi, supposizioni, e idee appiattite sulla cultura cinese. Quando poi l’umorismo occidentale incontra la visione nazionalista cinese,il risultato non è sempre dei migliori. Ciò che i brand del lusso trovano divertente non lo è agli occhi della controparte asiatica. Le aziende non comprendono che la loro satira ‘tagliente’ collide con una Cina sempre più assertiva e che pretende un maggiore riconoscimento internazionale. I giovani cinesi, infatti, vogliono che i brand guardino la Cina come un paese economicamente forte ed esteticamente moderno.
Florian Schneider, responsabile del Leiden Asia Centre e studioso del nazionalismo digitale cinese, vede i vari problemi incontrati dalla moda strettamente correlati ad un’ondata globale di politiche identitarie: “un passo falso da parte di una compagnia straniera può velocemente entrare nel complicato contesto nazionalista cinese, ciò riguarda un radicato sentimento identitario del popolo cinese che, in risposta, può reagire in maniera molto emotiva”. Ma l’attivismo culturale dei clienti cinesi è ciò che li distingue nel mondo del lusso. Sempre secondo il Schneider” i cittadini cinesi sono sensibili alle questioni politiche spesso molto polemici.” Consapevoli del loro potenziale economico collettivo, in caso di un’umiliazione o un’ingiustizia , sono pronti a rispondere col portafoglio”.
Dal momento che lo shopping è visto come partecipazione civica nonchè parte dell’identità di una persona, i brand devono stare molto attenti a come si comportano per evitare che le proprie azioni vengano percepite come troppo aggressive. “Questo vale a livello nazionale, quando i cinesi affrontano scandali riguardo alla salute o alla sicurezza. Ma è vero anche a livello internazionale, quando i cinesi si scontrano con imprese straniere che si comportano in modo arrogante o ignorante,” ha aggiunto Schneider. La cultura cinese alimenta sempre di più l’orgoglio nazionale e il consumismo e i brand, con le loro azioni, devono sempre fare in modo di non trovarsi nella posizione di aggressore nei confronti dei clienti cinesi.
L’industria globale della moda deve capire che non è sufficiente fare dei meri tentativi di sinizzazione o stare su piattaforme online cinesi. Ciò che manca è un dialogo da entrambe le parti. I brand devono rivolgersi a strutture industriali di potere con una rappresentanza cinese concreta e rendere i cittadini cinesi partecipi nella conversazione e nella creazione.
Il primo step è riconoscere cosa, nell’industria della moda, viene percepito come razzista ed elitario nei confronti dei “non bianchi” . Assumere e valorizzare di più lo staff cinese aiuterà anche a commettere meno errori in futuro. Come sottolinea il Schneider, ciò che i cinesi desiderano è un senso di rappresentanza. “A livello più superficiale, sono necessari dignità e rispetto. Se i brand stranieri incorrono in qualche incidente o contrattempo, basta poco per togliersi dai guai: devono solo mostrarsi sensibili verso i sentimenti nazionalisti della Cina e coinvolgere più esperti cinesi nei loro sforzi pubblicitari.
Ma a un livello più profondo, credo che gli sfoghi della Cina siano dovuti a questo vuoto di rappresentanza: viviamo in un mondo sempre più complesso, difficile da capire e ancor più difficile da controllare. Nel costesto della moda e del lusso, maggiore rappresentanza assicurerebbe ai cinesi posti ai tavoli aziendali, dove verrebbero ascoltati e coinvolti nel processo creativo.
Dalla piattaforma RED, una influencer di un luxury team ritiene che il potere tradizionalmente limitato del team di un brand cinese abbia contribuito ad alcuni passi falsi nel mondo della moda. “Una limited edition cinese di un brand di lusso viene di solito disegnata in Europa in base alla conoscenza e alla percezione che il designer ha della Cina. Il team cinese può a malapena interferire nella fase di design. La campagna può essere fermata solo se ci sono dei problemi politico-culturali. Ma di solito il team cinese non viene informato del contenuto in uscita e una volta che questo è in giro per il mondo è troppo tardi per obiettare.” Un’altra influencer, con esperienze di lavoro in una maison del lusso a Parigi, ha detto che c’è una generale indifferenza per le offese nei confronti di altre culture sul posto di lavoro. “Quando lo staff cinese o i consulenti locali informano il quartier generale di possibili rischi culturali, il sentimento ricorrente è di noncuranza. “Non sarà così grave”, rispondono dai piani alti.” La donna ha aggiunto che il problema è stato riscontrato anche nei confronti di Medio Oriente e Africa.
Il secondo passo per creare un dialogo a doppio senso è incoraggiare conversazioni a tutto tondo con la Cina in ogni settore della moda, con una copertura dei media di maggior qualità e più rappresentanza cinese nelle posizioni di potere. Voci dallo staff cinese hanno sottolineato che avere dei rappresentanti cinesi sul posto di lavoro non basta.
“Anche quando i brand hanno dipendenti cinesi molti tendono a ignorarli e farsi tascinare dalla massa. I brand hanno bisogno di lavorare con un team competente e neutrale che dia opinioni trasparenti,” dice Pooky Lee.
In un’industria elitaria ed esclusiva, a volte sembra che lo staff cinese venga assunto solo per facciata, per dare un’idea di eterogeneità. Se è così, l’approccio va cambiato, perchè l’industria non va più assecondata ma sfidata.
Di Jiaqi Luo
[Pubblicato su Vogue Business in Cina; Traduzione dall’inglese a cura di Alessio Prato e Beatrice Stancato]