L’esempio dell’indebitamento di Tonga mostra il destino al quale stanno andando incontro gli stati del Pacifico, prede degli aiuti economici di Pechino. La Cina, comprandosi il favore degli arcipelaghi più remoti del globo, cerca di fare il vuoto attorno ai cugini di Taiwan.
Nel bel mezzo del Pacifico, lontano dagli isolotti della discordia del Mar cinese meridionale, gli arcipelaghi più remoti della Terra vivono la loro placida esistenza nel dimenticatoio collettivo.
Fiji, Kiribati, Vanuatu, Samoa, Tonga, Nauru e via dicendo, per la maggior parte di noi – salvo i facoltosi vacanzieri dei paradisi tropicali (e, talvolta, fiscali) – sono non-luoghi da sogno, ammassi di scogli della mente che incarnano fantasie di ballerine in gonnelline di fiori, cocktail tropicali, re obesi e poligami, falò sulla spiaggia allietati dalle vibrazioni dell’ukulele.
Si scopre quindi con un po’ di delusione romantica come anche gli staterelli galleggianti tra la Nuova Zelanda e la west coast americana siano affetti dalle malattie del decennio: crisi economica, disoccupazione, rivolte interne.
E, soprattutto, come i tentacoli cinesi da decenni vi abbiano posizionato le proprie bandierine del Risiko.
Prendiamo l’esempio di Tonga: 176 isole (di qui oltre 50 disabitate), 103mila abitanti, monarchia costituzionale.
Nel 1998 Tonga allaccia rapporti diplomatici con Pechino e, nel giro di due anni, è già invasa dalla prima ondata del colonialismo all’involtino primavera. Ristoranti cinesi, negozi di cianfrusaglie: il cavallo di Troia del soft power cinese.
Nel 2001 i tongani si rivoltano violentemente contro la comunità cinese della capitale Nuku’alofa, dove i cinesi sono già più di tremila, lamentando la concorrenza sleale dei negozi made in China e la conseguente disoccupazione galoppante, mentre i rappresentanti del governo volano a Pechino per “rafforzare le relazioni militare tra Cina e Tonga”.
Pochi anni dopo, nel 2006, una protesta pro-democrazia distrugge mezza Nukul’alofa e costringe Australia e Nuova Zelanda ad inviare i propri soldati per sedare gli animi. Nell’enfasi, la protesta prende di mira diverse attività commerciali cinesi.
Davanti ad interi distretti commerciali ridotti in macerie e in assenza di risorse economiche sufficienti per far partire la ricostruzione, re Tupou V riforma l’assetto istituzionale tongano introducendo la monarchia costituzionale e – una delle prime misure del nuovo governo – bussa alla porta della “beneficenza” cinese.
Servono soldi per rilanciare l’economia, così Tonga accetta un prestito di 70 milioni di dollari, elargiti da Pechino con un tasso d’interesse del 2% spalmato su 20 anni.
La pancia del cavallo di legno si apre e le aziende statali della Repubblica popolare iniziano a fare razzia di contratti d’appalto, occupando il settore edile di Nuku’alofa, dove vive quasi il 70% della popolazione di Tonga.
Il re continua a chiedere soldi a Pechino, stavolta per costruire scuole ed ospedali. L’inviato del Wall Street Journal ci aiuta ad immaginare l’influenza estetica cinese nel panorama tongano.
“Cartelli rossi pubblicizzano ‘China Aid’ fuori dalle scuole nuove di pacca e un grosso cartellone ‘China Technical Center’ nella periferia di Nuku’alofa ricorda subdolamente l’aiuto finanziario cinese del quale, nel prossimo futuro, Tonga non potrà fare a meno”.
Con la morte di Tupou V, nel marzo scorso, il giovane successore Tupou VI ed il governo hanno ora il compito di svincolarsi dalla dipendenza economica cinese, che ha risucchiato l’arcipelago nel vortice dell’indebitamento rendendo di fatto Tonga una delle numerose depandance del Pacifico di Pechino.
L’esempio estremo di Tonga, che secondo il Lowy Institute australiano vanta il più grande indebitamento con la Cina dell’intera regione – pari al 32% del Pil – prefigura il futuro di altri stati del Pacifico.
Nella rete dell’aiuto cinese sono finite anche Fiij, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Samoa e Vanuatu, mentre l’Australia, col primo ministro Rudd, sta cercando di liberarsi dall’influenza di Pechino e smettere i panni di arma contundente politica brandita dalla Repubblica popolare contro Taiwan.
La conditio sine qua non per accedere al credito cinese, infatti, impone l’accettazione ufficiale della celeberrima “politica di una sola Cina”, ovvero la negazione dell’indipendenza della Repubblica di Cina stabilitasi nell’ex isola di Formosa dal 1949.
Concetto che i vari leader del Pacifico allineati con la Repubblica popolare non mancano di sottolineare ogni qual volta ne abbiano occasione, specie quando in visita entro le mura di Zhongnanhai. Oboli puntualmente versati all’indomani delle rivolte di Lhasa del 2008, tra gli altri, sia da Tupou V di Tonga, sia dal commodoro Bainimarama di Fiji.
L’ombra del Pcc, in definitiva, sta convertendo uno per uno gli alleati storici di Taiwan e, di conseguenza, degli Stati Uniti.
Lo zoccolo duro dei fedeli agli Usa comprende ad oggi gli stati di Kiribati, isole Marshall, Nauru, Palau, isole Salomone e Tuvalu. Tutti ricevono periodicamente aiuti economici da Taiwan e tutti, senza sorpresa, sono oggetto delle insistenti manovre di seduzione pechinesi.
Un dato su tutti: dal 2005 al 2009, sempre secondo il Lowy Institute, i prestiti cinesi alle isole del Pacifico sono passati da 23,2 a 600 milioni di dollari.
Se creare il vuoto attorno a Taiwan ha un prezzo, Pechino ha il portafogli pieno e una gran voglia di nuove amicizie tropicali.
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