Dopo la convulsa giornata di lunedì, terminata alle 4 di notte con una insolita conferenza stampa della chief executive di Hong Kong Carrie Lam, non poteva che arrivare la reazione di Pechino di fronte alle proteste e all’invasione del Consiglio esecutivo da parte di un gruppo di manifestanti, per di più «armati» della bandiera coloniale.
QUEST’ULTIMO PARTICOLARE, che ha trovato ampio spazio sulle rete sociali dei cinesi più nazionalisti, è un affronto difficile da dimenticare sia per il partito comunista sia per i tanti cinesi che già scettici nei confronti delle manifestazioni (in Cina ci si chiede principalmente che senso abbia bloccare una città, dando così l’idea di essere nel caos e dunque dimostrando di essere poco affidabile per gli affari) di sicuro potranno vedere confermato uno dei sospetti che fin da subito Pechino ha indirizzo ai manifestanti di Hong Kong, ovvero quello di essere manovrati da non meglio precisate potenze straniere. Un argomento che la Cina usa di frequente ma che nelle esternazioni ufficiali di ieri non è stato sottolineato di fronte all’opportunità di denunciare «le violenze» che metterebbero in discussione la dottrina di «uno Stato due sistemi» e di augurarsi che tutto torni al più presto alla normalità.
Anzi, proprio le azioni più radicali dei manifestanti di Hong Kong hanno permesso alla Cina di ricordare ai paesi europei e agli Usa il comportamento delle polizie occidentali di fronte a proteste di questo genere. Una bella rivincita, a neanche un mese dal trentennale di Tiananmen.
LA REAZIONE DI PECHINO – in ogni caso – era dovuta e attesa: nei giorni scorsi la Cina si era tenuta decisamente cauta e silente, anche per non fomentare ancora di più gran parte della protesta – più genericamente anti cinese e non solo contraria al dibattuto provvedimento sull’estradizione in Cina. Ieri però è intervenuto un portavoce dell’Ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao.
Il primo luglio, anniversario della restituzione di Hong Kong dal Regno unito alla Cina, ha dichiarato il funzionario, «dovrebbe essere una giornata di celebrazioni. Invece, alcuni estremisti hanno fatto ricorso al pretesto dell’opposizione agli emendamenti sulla legge (relativa alle estradizioni, ndr) del governo regionale speciale, hanno attaccato la sede del Consiglio legislativo con estrema violenza e deliberatamente danneggiato la struttura». Il funzionario del governo cinese ha aggiunto che «questo grave atto illegale calpesta lo Stato di diritto, mina l’ordine sociale e gli interessi fondamentali di Hong Kong. È una sfida deliberata ai presupposti fondamentali di uno Stato, due sistemi».
Non c’è alcun accenno a Carrie Lam, la chief executive dell’ex colonia a cui ora tocca un compito davvero arduo: placare la città, probabilmente concedere qualcosa alla società civile e nello stesso tempo rendersi ancora degna di fiducia da parte di Pechino; un percorso accidentato per l’ambiziosa Carrie Lam in procinto di pagare errori che pare abbia fatto totalmente in proprio se è vero, come si sostiene a Hong Kong, che l’idea della legge sull’estradizione sia stata una sua iniziativa, sicuramente gradita ma mai richiesta (per ora) da Pechino.
UNA CONFERENZA ALLE 4 di notte rende bene l’idea di emergenza, confusione e paura che pare caratterizzare, ora, il governo dell’isola. Nell’incontro stampa Carrie Lam ha giocato a dividere il fronte della protesta, tra chi ha manifestato pacificamente e chi invece ha fatto uso «estremo della violenza e del vandalismo che dovremmo condannare con fermezza perché a Hong Kong nulla è più importante dello stato di diritto».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.