Per J.M. Missionary Union, molte delle espulsioni dei nordcoreani sarebbero avvenute simultaneamente nelle città cinesi di Tumen, Hunchun, Changbai, Dandong e Nanping, nella serata del 9 ottobre. Secondo Human Rights Watch quelli accertati sarebbero un’ottantina: la maggior parte dei fuggiaschi sono donne e affrontano il “grave rischio di detenzione nei campi di lavoro, di tortura, volenze sessuali, sparizioni forzate ed esecuzioni.”
Una questione umanitaria rischia diventare un caso diplomatico tra Cina e Corea del Sud: nella giornata di venerdì il governo di Seul ha sporto protesta formale con le autorità di Pechino dopo la notizia del rimpatrio forzato di centinaia di cittadini nordcoreani, fuggiti in Cina. Il governo di Seul ha precisato di non aver potuto determinare il numero esatto dei rimpatri, che alcuni missionari calcolano ammontino a circa 600. Secondo Human Rights Watch quelli accertati sarebbero un’ottantina: la maggior parte dei fuggiaschi sono donne e affrontano il “grave rischio di detenzione nei campi di lavoro, di tortura, volenze sessuali, sparizioni forzate ed esecuzioni.”
Da tempo le organizzazioni per la difesa dei diritti umani osservavano con preoccupazione la riapertura della Corea del Nord al mondo, avvenuta a fine agosto con la riattivazione dei voli internazionali dopo tre anni di rigidissime misure anti-Covid. Per J.M. Missionary Union, molte delle espulsioni sarebbero avvenute simultaneamente nelle città cinesi di Tumen, Hunchun, Changbai, Dandong e Nanping, nella serata del 9 ottobre. Ovvero dieci giorni prima dell’anniversario del Partito dei Lavoratori nordcoreano e all’indomani degli Asian Games, l’evento sportivo ospitato dalla metropoli cinese di Hangzhou, che il presidente Xi Jinping ha celebrato come il simbolo della fratellanza inter-asiatica. La riattivazione dei contatti diplomatici sembra quindi aver rotto un’impasse che si trascinava da diversi anni, permettendo la riconsegna di quanti erano stati arrestati e trattenuti in Cina all’epoca della pandemia. Versione dei fatti che Pechino nega, affermando di gestire gli ingressi illeciti nel rispetto del “diritto internazionale”.
Il governo cinese considera i nordcoreani privi di documenti “migranti economici” illegali e, (come spiega un recente articolo del Financial Times tradotto in italiano da Internazionale), tende a rimpatriarli seguendo un protocollo di frontiera concordato con il regime dei Kim nel 1986, che prevede la cattura e il rimpatrio dei disertori: “Una volta tornate al Nord, quelle persone devono affrontare persecuzioni, torture e lavoro forzato; in alcuni casi sono condannate a morte e uccise.”
Con poche eccezioni, chi fugge dal Regno eremita passa in Cina attraversando la frontiera di 1.400 chilometri che divide i due paesi. Il riparo migliore – racconta il quotidiano finanziario – di solito si trova negli angoli più remoti del fiume Yalu, che scorre per quasi la metà del confine e gela durante i lunghi inverni, quando le bufere siberiane ricoprono la penisola di ghiaccio e neve. Le zone di frontiera sono pericolose, disseminate di pattuglie per scovare i disertori. La riuscita della fuga spesso dipende da una segreta rete di sostegno: intermediari in Corea del Nord e in Cina che vendono informazioni, cellulari usa e getta e servizi per trasferire denaro, ma anche Ong, in alcuni casi finanziate da chiese statunitensi, che coordinano una catena di case sicure e punti di smistamento in Cina e nel Sud-Est asiatico. Una rete segreta finanziata da Liberty in North Korea, un’Ong gestita da Seul e dalla California, usa molti collaboratori e vari mezzi di trasporto per consentire ai rifugiati nordcoreani di attraversare la Cina e il Sud-Est asiatico, seguendo percorsi che cambiano continuamente. Per alcuni tratti del viaggio si possono usare autobus, macchine e barche, ma bisogna anche camminare intere giornate per evitare la sorveglianza cinese.
La fuga è stata negli ultimi anni più o meno agevole a seconda dello stato dei rapporti tra Pechino e Pyongyang. Nei periodi di tensione la Cina è parsa più propensa a deportare i nordcoreani in paesi terzi o a chiudere un occhio nei confronti di chi cercava di scappare altrove. Secondo il Database Center for North Korean Human Rights, in passato sono stati rimpatriati oltre 8.000 nordcoreani, il 98% dei quali provenienti dalla Cina. Grossomodo 34.000 nordcoreani si sono invece trasferiti a Sud negli ultimi decenni: chi per fuggire alla repressione del regime, chi invece alla ricerca di condizioni di vita migliori. Ma, da quando ha preso il potere nel 2011, Kim Jong-un ha gestito più duramente del padre e del nonno i tentativi di fuga all’estero. Anche prima della pandemia, il Maresciallo aveva rafforzato i controlli lungo la frontiera e inasprito le punizioni per gli attraversamenti illeciti. Risultato: negli ultimi anni il numero di fuggitivi giunti in Corea del Sud è sceso a poche decine, mentre prima del Covid a scavalcare il 38° parallelo erano in genere non meno di 1.000 nordcoreani all’anno. Il crescente utilizzo in Cina della videosorveglianza – e in particolare del riconoscimento facciale – ha contribuito a frenare le diserzioni dall’altra sponda del fiume Yalu, rendendo estremamente difficile per i fuggiaschi evitare di essere identificati e rimpatriati.
Ma il problema è tutt’altro che risolto. A incidere è anche il peggioramento dell’economia nordcoreana. La carenza di cibo nel Regno eremita è peggiorata negli ultimi mesi, in parte a causa della prolungata quarantena e del conseguente crollo dei commerci con la Cina, che da sola conta per oltre il 95% degli scambi tra la Corea del Nord e l’esterno. A marzo lo stesso Kim ha ordinato una “trasformazione sostanziale” della produzione agricola, ammettendo l’esistenza di una “crisi alimentare” nel paese.
Secondo stime del governo sudcoreano, circa 10.000 nordcoreani potrebbero essere ancora nascosti in Cina. Le Nazioni Unite ritengono che 1.500 oggi si trovino in stato di detenzione dopo essere stati catturati dalle autorità di Pechino. La questione rischia di complicare anche i delicati rapporti con il governo conservatore di Yoon Suk-yeol, che ha consolidato la base del proprio consenso popolare promettendo una linea più dura nei confronti di Pyongyang. Pechino, invece, continua a giustificare le provocazioni missilistiche del Nord alla luce del crescente pressing di Washington nell’Asia-Pacifico, che proprio in Corea del Sud ha la sua più grande installazione militare oltremare.
Secondo quanto riportava a settembre la stampa locale, il presidente cinese Xi Jinping sarebbe “seriamente intenzionato” a visitare Seul in previsione dell’organizzazione di un vertice a tre con il Giappone. I due vicini asiatici – pur abbracciando con qualche riserva le restrizioni americane sull’industria cinese dei semiconduttori – hanno manifestato l’intenzione di voler riannodare gli scambi diplomatici per non compromettere i rapporti economici con la seconda potenza mondiale. Ora però il dossier dei fuggiaschi nordcoreani rischia di complicare ulteriormente il dialogo con Pechino.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.