“Il conflitto Cina-USA sta cominciando a influenzare l’economia cinese, ma l’impatto è ancora gestibile”. Lo ha dichiarato ieri Ning Jizhe, direttore dell’Istituto nazionale di statistica (NSB), all’annuncio dei dati economici per il 2018. Nel quarto trimestre il Pil cinese è cresciuto del 6,4% – in calo rispetto al 6,5% dei precedenti tre mesi – trascinando verso il basso le stime complessive per l’anno appena concluso. Nel 2018, l’economia cinese ha riportato un tasso di crescita del 6,6%, il peggiore dal 1990. Sebbene in linea con gli obiettivi del 6,5% stabiliti a inizio anno, i numeri dimostrano un calo trasversale degli indici, dall’export agli investimenti infrastrutturali, fatta eccezione per i servizi e la produzione industriale, leggermente in ripresa. A preoccupare è soprattutto l’erosione dei consumi interni, il segmento su cui Pechino conta di più per affrancare l’economia nazionale dagli investimenti, vero volano dell’ultimo decennio di ascesa cinese ma altresì all’origine dell’endemico indebitamento dei governi locali. Mutui, affitti e spesa sanitaria concorrono insieme alla stagnazione dei salari a indebolire il potere d’acquisto dei consumatori.
Le proiezioni per il 2019 non sono particolarmente incoraggianti. Soprattutto considerata la scarsa attendibilità delle statistiche governative. Mentre gli esperti internazionali scommettono su un 6,3% a livello nazionale, tredici delle venti province ad aver già reso noti gli obiettivi per il nuovo anno hanno ridimensionato le proprie aspettative. Il rallentamento non risparmia nemmeno le aree costiere, cuore pulsante del manifatturiero cinese. A Shenzhen, la Silicon Valley cinese, quest’anno le vacanze per i lavoratori nei comparti dell’elettronica, del tessile e dei ricambi per auto sono cominciate con due mesi di anticipo rispetto all’inizio dei festeggiamenti per il Capodanno cinese (5 febbraio). Mentre la disoccupazione si attesta – ufficialmente – ancora al 4,9%, le possibili ripercussioni della frenata sul mercato del lavoro rappresentano uno dei grattacapi maggiori per la leadership cinese, ossessionata dalla stabilità sociale. E l’andamento demografico non aiuta.
Secondo i dati rilasciati contestualmente dal NSB, nel 2018 si sono registrati appena 15 milioni di nuovi nati, 2 milioni in meno rispetto all’anno precedente. La popolazione cinese non cresceva a ritmi tanto bassi dalla grande carestia del 1961, ma quel che più preoccupa è il progressivo calo della forza lavoro, diminuita di 4,7 milioni lo scorso anno. Segno che l’abolizione della politica del figlio unico, annunciata nel 2015, non è in grado di arrestare il rapido invecchiamento della popolazione. Stando all’agenzia Xinhua, nel 2050, 487 milioni di cinesi avranno almeno 60 anni, quanto il totale della popolazione americana.
Si capisce, quindi, come la guerra tariffaria in corso con gli Stati Uniti non costituisca la causa primaria del rallentamento economico, imputabile piuttosto a fattori di ordine interno. Analizzando le statistiche, il Global Times mette in risalto come una crescita più lenta non implichi uno stato di “crisi” bensì “un processo di risoluzione di problemi difficili, in cui il controllo di gravi rischi sfocerà in un atterraggio morbido. La Cina ha riadattato la sua economia e mantenuto una crescita a velocità medio-alta, dimostrando la sua resilienza.” D’altronde, trattasi soprattutto di mali autoinflitti nel tentativo di combattere inquinamento ed esposizione debitoria dei governi locali. Due crucci a cui Pechino ha riposto negli ultimi anni limitando la sovraccapacità industriale (con conseguenti licenziamenti), raffreddando il mercato immobiliare e sospendendo nuovi costosi progetti infrastrutturali. E’ proprio per evitare di incorrere nei vecchi errori che, escludendo l’arrivo di nuovi stimoli economici sul genere sperimentato nel 2008, stavolta il governo cinese ha promesso di intervenire chirurgicamente con sgravi fiscali e incentivi “soft”. Basterà a prevenire un hard landing?
La Cina ha bisogno di un tasso di crescita minimo del 6,2% per poter realizzare i “due obiettivi centenari”, annunciati dal presidente Xi Jinping nel 2014: “raddoppiare il Pil e il reddito pro-capite del 2010 nelle aree urbane e rurali, e raggiungere una società moderatamente prospera entro il centenario del Partito (2021); rendere la Cina un Paese socialista moderno che sia prospero, forte, democratico, avanzato culturalmente e armonioso entro il centenario dalla fondazione della Repubblica popolare (2049)”.
Lo stesso giorno in cui le autorità cinesi hanno rilasciato i dati economici, Xi Jinping convocava funzionari provinciali e ministeriali per istruirli sui rischi politici, ideologici economici, tecnologici e sociali causati da “profondi cambiamenti del contesto internazionale”. Chiara allusione alla guerra commerciale con gli States ma non solo. Secondo il presidente si tratta di sfide a lungo termine che interessano la tenuta della leadership così come le riforme economiche. Il 2019 si presenta ricco di date sensibili – dal 30esimo anniversario di Tian’anmen ai dieci anni degli scontri etnici di Urumqi – che sommate alla traballante performance economica potrebbero alterare l’agognata armonia sociale. Ben altro clima rispetto a quello respirato nell’autunno 2017, quando, durante il 19esimo Congresso del Partito, Xi descrisse la Cina come un modello per il resto del mondo.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.