Non vogliamo i test, vogliamo la libertà”; “Partito comunista dimettiti! Xi Jinping dimettiti!”. Nella notte di sabato centinaia di persone hanno marciato lungo Urumqi Road, il viale di Shanghai che prende il nome dal capoluogo del Xinjiang dove giovedì dieci persone sono morte in un incendio. Nella regione autonoma cinese da anni le minoranze musulmane denunciano gravi privazioni delle libertà personali. Ma con il Covid le restrizioni sono arrivate a colpire tutti, a prescindere dall’etnia. Diverse città del Xinjiang sono isolate da oltre 100 giorni a causa del coronavirus: proprio le rigide misure contenitive pare abbiano ostacolato le operazioni dei vigili del fuoco provocando la morte per intossicazione di chi viveva ai piani più alti. Una tragedia che non ha lasciato insensibili i connazionali di Pechino, Shanghai, Nanchino, Chengdu e altre città.
Il fatto è che in tutta la Cina – non solo nel Xinjiang – sta facendo più morti la strategia Zero Covid del coronavirus. Sono almeno tredici le persone ad aver perso la vita a causa della ferrea politica sanitaria di Pechino a base di lockdown, test di massa e limitazioni della mobilità: venerdì una ragazza si è suicidata non riuscendo a sopportare l’idea di venire internata in una delle strutture per la quarantena centralizzata. In confronto negli ultimi sei mesi sono stati solo tre i decessi per Covid: tutti over 80 con patologie pregresse.
A tre anni dal focolaio di Wuhan, la Cina è rimasta l’ultimo paese al mondo a sperare di poter domare il virus con l’isolamento repentino dei contagi anziché attraverso l’immunità di gregge. Fino ad oggi la rigida strategia contenitiva ha funzionato con un discreto successo soprattutto grazie all’accondiscendenza dei cittadini. Una “guerra di popolo” – l’ha definita il presidente Xi Jinping – in cui ognuno ha fatto la sua parte per il bene della collettività. Ora però la popolazione è stremata. I martiri della Zero Covid chiedono giustizia. Le proteste, prima isolate, cominciano a diventare un unico grido disperato: dagli impiegati della Foxconn, rinchiusi in fabbrica ad assemblare iPhone, ai lavoratori del tessile di Guangzhou rimasti senza un tetto, fino a centinaia di studenti delle università Tsinghua e Beida di Pechino, già protagonisti delle storiche proteste di piazza Tian’anmen.
A Shanghai nella serata di ieri serata si sono vissuti momenti di forte tensione, con la polizia chiamata a disperdere migliaia di persone radunatesi tra Anfu Road e Wuzhong Road, nel centro cittadino. I video circolati sui social mostrano brevi colluttazioni, spintonamenti e sporadici momenti di violenza, con diversi dimostranti portati via dagli agenti. Molti manifestanti avevano con loro cartelli bianchi, senza scritte, in segno di protesta.
Il Covid ha esacerbato ulteriormente distorsioni sociali preesistenti. Le diseguaglianze aumentano, gli emarginati restano tali anche più di prima. Si aggiungono i malumori di una classe media finora rimasta compiacente nei confronti di un governo che ha saputo assicurare per trent’anni benessere economico a fronte di compromessi per molti accettabili: non poter usare i social network americani o eleggere democraticamente i propri leader. Ora però l’appello alla ziyou (libertà) mostra istanze che trascendono le richieste estemporanee, frammentate, e geograficamente circoscritte degli ultimi anni: i manifestanti non invocano più solo una migliore qualità dell’aria o una classe dirigente meno corrotta. I destinatari degli appelli non sono più solo le amministrazioni locali.
Mentre negli anni Duemila non sono mancati sporadici movimenti di massa, è una delle primissime volte dall’’89 che le proteste prendono di mira il governo centrale. Ed è eloquente che questo avvenga a un mese dal XX Congresso del partito e dalla conferma di Xi a un controverso nuovo mandato quinquennale. Soprattutto non si tratta di episodi isolati. Secondo China Dissent Monitor, progetto di Freedom House, da giugno ad oggi si sono verificate almeno 822 proteste in Cina, di cui la maggior parte ha riguardato le misure anti-Covid, ma anche “il settore immobiliare, i diritti dei lavoratori, la corruzione dei funzionari e i diritti sulla terra”. Le contestazioni – ormai diffuse in tutte le province – hanno interessato perlopiù progetti abitativi in stallo (215), e retribuzione salariali (109). Ma le proteste contro le politiche sanitarie hanno preso il sopravvento a partire da settembre.
Mentre l’indagine rileva una risposta perlopiù positiva del governo alle azioni collettive, nel caso delle misure anti-Covid Pechino non può fare molto: secondo gli esperti, un allentamento immediato della strategia tolleranza zero porterebbe al collasso del sistema sanitario nazionale. Nonostante le restrizioni, i contagi (oltre 30.000 sabato) hanno superato il bilancio del secondo trimestre, quando Shanghai fu blindata lasciando migliaia di residenti senza beni essenziali.
La Cina si trova in un vicolo cieco. Un terzo degli over 60 non ha ricevuto la terza dose necessaria a contrastare le varianti. Secondo il Financial Times, una riapertura – senza un aumento consistente delle terapie intensive – porterebbe al collasso del sistema sanitario nazionale. Un paio di settimane fa Pechino ha emanato 20 misure per limitare gli effetti della Zero Covid sull’economia e la vita dei cittadini. Ma la rapida diffusione delle infezioni ha spinto le autorità locali a reintrodurre divieti e tamponi di massa, spesso attraverso comunicazioni diramate ufficiosamente a voce o tramite WeChat. Stimare l’effettiva estensione dei provvedimenti è sempre più difficile. Restano i video rimbalzati sul web. Come ai tempi di “Voices of April”, la protesta virtuale organizzata durante la quarantena di Shanghai, quando il malcontento diventa corale non c’è censura che tenga. Secondo Freedom House, durante la compilazione dello studio sono stati documentati diciotto casi di mobilitazioni collegate ad hashtag online.
Mentre da decenni l’Occidente accusa Pechino di violare i diritti umani, fino all’arrivo del coronavirus la repressione ha interessato una fetta infinitesimale della popolazione cinese: dissidenti, avvocati, petizionisti, minoranze etniche. La Zero Covid, invece, colpisce chiunque, dal lavoratore migrante alla borghesia urbana, zoccolo duro del consenso politico. E’ inoltre rimarchevole la solidarietà mostrata nei confronti del Xinjiang, un’area del paese considerata arretrata e generalmente malvista dai cinesi urbanizzati. Proprio la trasversalità rende le attuali esternazioni di dissenso potenzialmente pericolose per la tenuta del sistema. Il condizionale è d’obbligo. Per il momento a scendere in strada sono prevalentemente i giovani. Se la rabbia arriverà a contagiare genitori e parenti, dipenderà dalla reazione di Pechino.
Comincia a diventare difficile giustificare le misure draconiane attuate in patria dopo che Xi Jinping si è fatto immortalare al G20 senza mascherina. Proprio in questi giorni le immagini dello Stadium 974 di Doha gremito di tifosi hanno ispirato non pochi commenti risentiti sul web. Il modello cinese perde credibilità ora che il resto del mondo è tornato alla normalità. Cosa farà Pechino? Per il momento la risposta è stata abbastanza soft: al netto di qualche arresto, a Shanghai la polizia si è limitata a strattonare via i manifestanti, mentre nel Xinjiang la quarantena è stata alleggerita. Ma le concessioni sembrano finire qui.
Nella giornata di domenica il People’s Daily, il principale quotidiano statale, ha annunciato che la Cina “persisterà fermamente” nella sua politica di tolleranza zero verso il Covid, ma alla vittoria assisterà solo “chi ha tenuto duro fino alla fine”. L’editoriale – espressione dei vertici del partito – auspica la correzione degli “atteggiamenti sbagliati”, come “la sottovalutazione del problema, l’indifferenza e l’arroganza”. Letteralmente: “Dobbiamo risolutamente superare i ragionamenti ottusi, la stanchezza, le vane speranze e una certa mentalità lassista”.
Probabilmente il governo opterà per un allentamento progressivo delle misure contenitive. Proprio di recente le autorità sanitarie nazionali hanno introdotto 20 provvedimenti per ridurre l’impatto delle restrizioni sull’economia e la vita quotidiana dei cittadini. La patata bollente passa così nelle mani delle amministrazioni locali. Saranno loro a dover rispondere in caso di incidenti nella fase attuativa. Spesso la leadership cinese si scherma dietro alla scusa del cortocircuito tra centro e periferia. Stavolta però l’opinione pubblica sembra averne davvero abbastanza.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.