Nel 2006, a Shanghai, il mio coinquilino era un cinese di 30 anni, impiegato in un’azienda di marketing. È la persona che mi ha insegnato più cose sulla Cina: laureato in economia, aveva vissuto per un certo periodo anche in Africa, in Nigeria,
dove era andato a lavorare per un’azienda di e-commerce. Una sera durante una cena in cui continuava a declamare le straordinarie proprietà del «maiale alla Mao», mi venne in mente di non avergli mai chiesto cosa pensasse del «grande timoniere».
Del resto le nostre discussioni erano sempre state oltremodo contemporanee e il mio costante senso di inadeguatezza in Cina mi portava per lo più a chiedergli cose pratiche, per la sopravvivenza quotidiana. «Era un contadino», mi rispose
quando gli chiesi di Mao. Ricordo che ci rimasi male: «Ma come, un contadino. E la rivoluzione?». Lui tergiversò, poi tagliò corto: «A nessuno interessa più quella roba, oggi pensiamo tutti ad altro».
Qualche sera dopo ci ritrovammo in un locale poco distante da casa nostra; si trattava di un piccolo club che ricordava molto alcuni posti simili in Europa: stretto e lungo, claustrofobico, birra e alcol di pessima qualità, alone di fumo denso. Per lo più in quel locale venivano a suonare band punk o hardcore, il pubblico era genericamente molto giovane e fuori vendevano del cibo di strada che non dimenticherò mai. Una sera, uno dei gruppi, approfittando del fatto che in quel club ci finivano molti stranieri, introdusse insolitamente una delle canzoni in inglese: «Questo brano – disse il frontman – è un invito a non dimenticare la lotta di classe». Io ero in visibilio: la lotta di classe? Cominciai a strattonare il mio coinquilino, con quei modi bruschi che si impossessano delle persone ai concerti punk (e dove servono birra e alcol di pessima qualità), e gli urlai: «Vedi che non capisci un cazzo di niente, Mao un contadino! E che gli dici a questi?». La musica ci sprofondò in una bolla di rumore, urla e impossibilità a capire anche solo una parola della canzone. Tornando a casa sentenziò: «Ma questi sono dei coglioni». A quel punto, però, ne volevo sapere di più. E allora scoprii che il gruppo si chiamava Gum Bleed e il suo frontman si definiva «la nuova voce della classe operaia: ci opponiamo al capitale, all’oppressione e alla discriminazione».
Era abbastanza per provare a capire di più questo sentimento, in una Cina che appariva tutto, nel 2006, tranne un paese interessato al conflitto, alla lotta di classe, alla rivoluzione, al comunismo. L’allora mantra della dirigenza era «l’armonia» e in generale l’approccio sociale era rivolto a salire i gradini verso l’agognato status di classe media. Si trattava però di un sentimento che aleggiava nella popolazione e che ritrovai una sera di molti anni dopo a Pechino durante una cena con gli autisti dei pullman che portavano dei bambini a una scuola calcio, presso cui lavoravo come allenatore. A un certo punto cominciarono a brindare a ripetizione a Mao Zedong. L’andazzo era «eravamo più poveri, ma più uguali».
Nel 2020 su Zhihu, un sito cinese di domande e risposte, come Quora, è apparso un interrogativo: «Qual è il più grande personaggio storico della storia moderna cinese?». La maggioranza dei partecipanti al sondaggio non ha risposto Sun Yat
Sen o Lu Xun (come forse avrebbero fatto dei professori universitari), bensì lui, il grande timoniere Mao Zedong. In pratica, su uno dei siti che furono finanziati da uno dei principali venture capitalist dell’economia cinese, Lee Kai Fu, poi acquisito da Baidu (il Google cinese) e frequentato per lo più da under 30, la «vittoria» di Mao Zedong segnalava un fenomeno incredibilmente in ascesa: il socialismo era tornato di moda; era tornato, proprio come stava accadendo negli Usa, a essere «cool», figo. Quella nascente tendenza, che avevo incrociato in quel locale fumoso molti anni prima, è riemersa più forte e più matura nei risultati di questo sondaggio.
Secondo lo storico Wang Rui, che ha scritto dell’esito di questo sondaggio su «Sixth Tone», si tratta di persone «fiduciose nell’ascesa della Cina e nostalgiche per l’uguaglianza e l’entusiasmo rivoluzionario dell’era Mao. Sono disposte a guardare oltre rispetto ad alcuni elementi di quel periodo, a favore del lavoro che ha svolto Mao gettando le basi della rinascita della Cina». Piuttosto che vedere l’era di Mao come
un progetto utopico fallito, secondo Wang Rui, questi giovani «attribuiscono a quell’epoca – e agli uomini e alle donne che l’hanno vissuta – i maggiori progressi nell’industria di base, nella costruzione della società, nell’aspettativa di vita, nella sanità, nella produzione culturale, e per la sicurezza nazionale su cui si fondano le loro vite e la loro prosperità». Mica male.
David Graeber, morto nel settembre del 2020, figlio della working class, è diventato negli anni un riferimento sia per i movimenti, come ad esempio Occupy Wall Street, sia per l’accademia, passando alla storia con l’etichetta di «antropologo anarchico». Graeber non era mainstream in Occidente, figurarsi in Cina, eppure nel giorno della sua morte alcuni articoli in mandarino che ho visto girare su WeChat parlavano di lui. Non si tratta certo di un’adesione di massa al suo pensiero, ma è innegabile che, specie in alcuni ambienti, la sua morte abbia portato a conoscenza le sue opere in Cina (alcune delle quali sono state anche tradotte in mandarino). Graeber – infatti – ha suggerito un approccio che enfatizza l’azione diretta, l’autogestione e l’aiuto reciproco, tutte idee che secondo Cai Yineng, editor di «SixthTone», «per alcuni aspetti, sono già state adottate. Negli ultimi anni, artisti, designer, studiosi ed educatori cinesi si sono riuniti per affrontare questioni sociali che vanno dalla gentrificazione alle questioni di genere attraverso forme diverse come la produzione musicale sperimentale, il teatro di strada e i seminari. I partecipanti a questi collettivi decidono quasi tutto democraticamente, da quale sarà il loro prossimo progetto a quale spazio di co-living affittare. All’interno di questi collettivi, Graeber compare regolarmente nelle discussioni e nelle liste di lettura».