La rimozione del vincolo dei due mandati presidenziali, la guerra commerciale poi tracimata in qualcosa di ben più ampio, le proteste di massa di Hong Kong, il coronavirus a Wuhan e una lunga quarantena in una stanza di ospedale a Nanchino. Filippo Santelli, giornalista, è stato corrispondente de La Repubblica a Pechino per circa tre anni, dai primi mesi del 2018 al gennaio 2021. Prima di tornare in Italia a occuparsi di economia ha potuto testimoniare in prima persona una serie di sconvolgimenti interni ed esterni al territorio della Repubblica Popolare, “un inestricabile groviglio di forze e debolezze”, con un paese che sulla via del progresso e dell’affermazione internazionale si trova in certa parte ancora “in bilico tra sicurezze e insicurezze”. Un groviglio che Santelli racconta, insieme alla sua esperienza di corrispondente, nel libro “La Cina non è una sola” (Mondadori).
Pubblichiamo un estratto di “La Cina non è una sola – Tensioni e paradossi della superpotenza asiatica” di Filippo Santelli (per gentile concessione di Mondadori Editore)
Eravamo entrati nella contea autonoma di Yi, dove vive una delle cinquantacinque minoranze etniche riconosciute dal governo, un milione di persone che parlano un dialetto di origine birmana. Qualche mese prima, all’inizio del 2018, anche il presidente e segretario generale Xi Jinping era salito fin quassù, a duemilacinquecento metri di altitudine tra i monti del Sichuan, provincia sudoccidentale della Cina. Per chissà quale ragione, fra i tanti piccoli villaggi che costeggiano questa strada vero il nulla, tutti ugualmente miseri e diroccati, il cerimoniale aveva puntato il dito proprio su Huopu.
La visita del grande capo, con al seguito la consueta corte di alti dirigenti del Partito e telecamere, aveva strappato quel luogo alla sua astorica immutabilità, per proiettarlo sotto i riflettori della propaganda. Huopu era diventata il simbolo di una delle battaglie fondamentali del presidente,
quella per cancellare la povertà dalle aree rurali della Cina.
Xi aveva lanciato la grande campagna appena diventato segretario generale, nel 2013. Era impensabile che una potenza comunista lasciasse indietro una parte del Paese e dei suoi cittadini, mentre marciava ad ampie falcate verso un futuro di benessere. Il presidente aveva fissato l’obiettivo per la fine del 2020, giusto in tempo per il centenario della fondazione del Partito comunista: sette anni per sollevare dalla povertà circa cento milioni di persone che ancora vivevano in condizioni di assoluta indigenza. Il successo avrebbe coronato un primo grande traguardo nella modernizzazione della Cina, il raggiungimento di una società «moderatamente prospera», e consacrato Xi come un grande leader del popolo. Huopu e i suoi abitanti si erano quindi trasformati in una delle famose esperienze modello, da mostrare ai funzionari di altre province e ai giornalisti. Dopo due ore di tornanti il minibus parcheggiò davanti al «centro direzionale» del villaggio, un piccolo edificio a due piani che da un cocuzzolo dominava la valle.
Appoggiate in disordine su un pendio dolce c’erano una trentina di casette con l’intonaco bianchissimo, circondate da campi terrazzati e alcune serre: la «nuova» Huopu. Il vecchio villaggio si trovava più in là lungo una strada sterrata, sull’altro versante della collina. Alcune delle abitazioni originarie erano state preservate per consentire ai visitatori di fare il confronto. Erano piccole costruzioni con i muri di fango, stamberghe riscaldate a legna e fiato in cui uomini e animali condividevano gli stessi spazi.
La campagna contro la povertà è definita anche «un-due-tre»: bisogna garantire alle persone «un reddito» oltre la soglia della povertà, più o meno 400 euro l’anno, ma anche togliere alle famiglie «due preoccupazioni», cioè cibo e vestiti, e offrire loro «tre garanzie», vale a dire una casa sicura, accesso all’educazione e cure mediche. Per milioni di abitanti delle regioni più remote la soluzione era radicale: il governo le trasferiva, non sempre volontariamente, in un’area diversa e spesso lontana, magari una periferia urbana. Lo sradicamento provocava problemi di adattamento e relative proteste. Ma agli abitanti di Huopu era andata bene, si erano dovuti spostare solo qualche centinaio di metri.
«Altrove ci sono state resistenze, ma qui tutti hanno accettato» spiegò Ma Tian, un ragazzotto dalla corporatura abbondante e la tipica sbrigativa attitudine del capetto locale cinese. Era la mia guida nel tour, ma soprattutto il funzionario che il Partito aveva inviato a Huopu con il compito
di garantire un reddito minimo a tutte le famiglie. Avevano scelto uno Yi di città, strategia utilizzata spesso con le minoranze: percependolo come uno di loro, i locali ne avrebbero accettato con più facilità i consigli o gli ordini. Ma Tian snocciolava a memoria i numeri del suo successo, quelli su cui sapeva che le autorità lo avrebbero valutato, l’unica realtà che conta per un funzionario, il suo passaporto per fare carriera: qui una volta c’erano 172 nuclei familiari in povertà, ora sono ridotti a zero, il reddito medio è salito da 2200 a 4500 renminbi l’anno, circa 600 euro.
Eravamo entrati nel cortile in cemento di una delle nuove abitazioni. Davanti a noi una donna si stava lavando i capelli nerissimi con la testa piegata su una bacinella di plastica. Con un po’ di reticenza ci aprì la porta di casa, facendo entrare i visitatori stranieri: «Ora non mangiamo solo patate, abbiamo acqua potabile ed elettricità» sussurrò nel dialetto Yi, piantata davanti al televisore spento. Per terra, ancora imballata, c’era una doccia fotovoltaica, presto avrebbe avuto anche l’acqua calda. Sul muro, un poster di Xi Jinping e della moglie Peng Liyuan, amatissima ex cantante lirica, con alle spalle piazza Tiananmen, un luogo di cui probabilmente questa donna aveva a malapena sentito parlare.
Per milioni di cinesi, specialmente quelli che ricordano l’epoca delle privazioni, il progresso si misura ancora su una scala basilare e concreta: cose che prima non avevi e ora possiedi. A seconda dei casi, carne di maiale, case di mattoni, automobili straniere, scarpe alla moda. Uno dei motivi per cui la battaglia contro la povertà di Xi poteva essere vinta è che quasi tutte le persone coinvolte partivano da zero. Una miseria atavica, da terzo o quarto mondo, una testimonianza vivente del punto da cui l’ascesa cinese è iniziata. La soglia dell’indigenza fissata dalle autorità di Pechino è bassissima, inferiore ai 2 dollari al giorno previsti dalla Banca mondiale. Eppure nel 2013 i cinesi al di sotto di questo livello erano ancora 100 milioni. Per sollevarli di mezzo gradino il Partito ha stanziato cifre enormi, mobilitato risorse pubbliche e private, mandato milioni di funzionari come Ma Tian ai quattro angoli del Paese, dai deserti dello Xinjiang ai monti del Sichuan. Il loro compito: inventarsi un modo per creare economia lì dove non ce n’era mai stata, insegnare un mestiere a persone abituate alla sussistenza, se necessario improvvisare.
Nelle serre di Huopu, per esempio, erano state piantate delle belle fragole. Una coltivazione fino a quel momento sconosciuta nelle valli, di certo non essenziale alla dieta dei locali, ma che un qualche comitato del Partito aveva ritenuto adatta al suolo e al mercato provinciale. Due contadini dall’aspetto bonario, marito e moglie entrambi sulla settantina, erano stati inviati dalla città di Xichang, giù a valle, per insegnare agli abitanti come farle crescere. «Non ne avevano la minima idea» confessò l’uomo. Non sapevano nemmeno come trattare i funghi o il tè, altre piante introdotte d’ufficio, ma l’importante era fare qualcosa.
La merce sarebbe stata poi venduta a un’azienda di Stato, e i proventi spartiti tra i membri della cooperativa del villaggio, appositamente costituita. Una parte sarebbe andata anche alle persone che per età o problemi di salute non potevano lavorare. Di ritorno dalle serre verso il centro direzionale, Ma Tian si era lanciato in un’enumerazione dei nuovi e ancor più mirabolanti progetti di sviluppo che aveva in mente, parole d’ordine calate dall’alto che lui aveva intenzione di applicare senza chiedersi se o a chi potessero giovare. C’era il turismo rurale, per i visitatori che volevano fuggire
dalla frenesia della Cina moderna e passare qualche giorno lontano da tutto. Oppure un e-commerce dove i contadini avrebbero potuto vendere direttamente i loro prodotti. Nel frattempo però a Huopu, come in tante altre contee povere, la campagna contro la miseria si era concretizzata
soprattutto nella distribuzione di qualche sussidio, diretto o indiretto, com’era normale che accadesse considerando le condizioni degli abitanti e il loro livello di istruzione.
Eppure era innegabile che per i cittadini fosse un passo avanti, piccolo o grande secondo i punti di vista: «La nuova casa è la più bella che io abbia mai visto» mi disse Le’er You Hong, una ragazza di ventisette anni che incrociammo per caso lungo la strada, il figlioletto addormentato avvolto in un fagotto sul petto. Insieme al marito aveva partecipato ai corsi serali organizzati per gli abitanti: a entrambi avevano insegnato i pilastri del pensiero di Xi Jinping, a lei un po’ di mandarino e come cucinare cibi più salutari, a lui un mestiere. Gli era bastato per trovare lavoro stagionale nello Shandong, su al Nord. In questo momento molti degli abitanti di Huopu erano lontani, a lavorare come «migranti» stagionali, da qui l’impressione di un villaggio semivuoto. Sarebbero tornati per la raccolta delle patate: «Il nostro reddito è arrivato a 30.000 renminbi l’anno» spiegò la donna, quasi 4000 euro.
Lì davanti, all’interno del centro direzionale, c’erano gli altri prodotti della campagna «un-due-tre». In una stanzetta il medico del villaggio, versione aggiornata dei dottori scalzi dell’epoca di Mao. Non proprio un medico come lo intendiamo noi: nel suo camice troppo largo ci raccontò che il disturbo più diffuso in quelle valli era il «mal di pancia». Però aveva in dotazione qualche farmaco di prima necessità da distribuire agli abitanti e il numero di una clinica di città per i casi più gravi. La porta a fianco invece era l’asilo. Dentro, una ventina di bambini fra i tre e i sei anni, agghindati per l’occasione con le giacchette tradizionali degli Yi, ci accolsero cantando filastrocche nel dialetto locale e in mandarino, sotto l’immancabile fotografia
di Xi e la bandiera cinese. Come ogni campagna nazionale, anche quella contro la povertà ha una dimensione di sicurezza: dietro all’obiettivo ufficiale, serve a puntellare il consenso del Partito nelle aree rurali, ad assimilare le minoranze etniche, specie quelle giudicate una potenziale minaccia, come i tibetani o i musulmani dello Xinjiang, a rafforzare il controllo del centro sulle periferie. Mentre ci apprestavamo a lasciare il villaggio, liberando il campo per la successiva delegazione, in classe era arrivato un poliziotto per sensibilizzare gli alunni contro il consumo
di cocaina. «La droga è un demonio» aveva scritto sulla lavagna. Messaggio forse un po’ prematuro per dei bimbi dell’asilo.
Due anni dopo la mia visita a Huopu, nel novembre del 2020, Xi Jinping ha dichiarato ufficialmente vinta la guerra contro la povertà, con qualche mese di anticipo sui termini.